La Turchia armata avanza con i droni. Trattato sulle armi da rivedere
La Turchia armata avanza con i droni. Trattati sulle armi da rivedere

Il quotidiano turco Hurriyet di stamane titola «Un appello scandaloso da membri del Congresso USA sui droni armati», e riporta 27 membri parlamentari ‘vicini alla lobby armena’, hanno inviato una lettera al segretario di Stato Antony Blinken in cui hanno denunciano che i droni e droni armati prodotti dall’azienda turca Baykar Savunma ‘non soddisfano gli interessi americani in Asia meridionale, nel Caucaso, nel Nord Africa, nel Mediterraneo orientale e in Medio Oriente’, e hanno invitato l’Amministrazione americana a fermare l’esportazione della tecnologia di droni in Turchia.
Autocrati del terzo millennio, guerre ‘low cost’, ma sempre più numerose. Su Avvenire, Raul Caruso spiega il resto.

Le sempre più diffuse guerre dei droni

Le guerre sono e saranno sempre più combattute da droni e sempre meno da eserciti schierati su un campo di battaglia, è la premessa. Che all’inizio appare quasi rassicurante. E veniamo informati che nei conflitti di Libia, Siria, Ucraina e Nagorno-Karabakh i droni stanno giocando un ruolo decisivo. Ma sul chi li produce, a chi li vende e chi ci guadagna in soldi e strategia militare, ecco che scoppia un’altra guerra.

«Stati Uniti, Cina e Israele sono i grandi produttori ed esportatori di droni anche se nuovi Paesi si stanno rendendo protagonisti».

Turchia, di più e di meglio

«Su tutti risalta la Turchia che aveva dato avvio al suo programma di sviluppo dei droni solo pochi anni fa e che adesso sembra guadagnare clienti in tutto il mondo». Il caso turco, peraltro, coinvolge osservatori non proprio disinteressati in virtù di diversi aspetti. Con dettagli quasi ‘piccanti’ di famiglia, in senso molto stretto. Ad esempio le rivelazioni stampa sul genero di Erdogan direttamente coinvolto e interessato allo sviluppo dell’industria dronica e che quindi interessi privati vadano ad intrecciarsi con valutazioni geopolitiche necessariamente più ampie.

Ankara osservata speciale

Ma molto più importante, vista l’importanza dei droni nelle guerre di oggi, la capacità di Ankara di rendersi protagonista in questo mercato potrebbe far accrescere anche il ruolo politico e di potenza del Paese. E sorprende molti osservatori che un Paese considerato in via di sviluppo solo fino a pochi anni fa possa aver acquistato un ruolo a livello globale sfruttando una tecnologia militare in un momento in cui l’economia turca è in profonda difficoltà.

Autocrati del terzo millennio

Evoluzione non era però da considerarsi inaspettata. Erdogan, di fatto, «esempio evidente delle autocrazie con le esperienze totalitarie del ventesimo secolo». Proviamo a semplificare: «Illusione di crescita economica nel breve periodo seguita da livelli crescenti di vulnerabilità e fragilità, aumento della spesa militare e della militarizzazione interna e infine, sostegno all’industria interna delle armi nei mercati internazionali». Gli esempi citati su Avvenire:

«i medesimi segnali nella Russia di Putin ma probabilmente il modello di riferimento è più quello di Kim Jong-un in Corea del Nord, Paese che vive in condizioni di povertà ma che genera ricche rendite per l’élite al potere attraverso l’esportazione di armi a livello mondiale».

A chi i droni turchi e quali alleanze

Oltre le considerazioni già fatte, la vera preoccupazione è l’impatto di tale evoluzione tecnico militare turca sulla stabilità e la pace internazionali. «Il leader turco, infatti, ha anche dimostrato nei fatti che la mancata regolamentazione del mercato mondiale delle armi sta ridisegnando le tradizionali alleanze». La Turchia che con la sua disinvolta esportazione di droni ha continuato il suo processo di allontanamento dalla NATO, evidenziato con l’esclusione USA dal programma F35 nel 2019. E l’esempio della Turchia, diventa così caso emblematico di studio geostrategico.

Più droni più stabilità, o il contrario?

La diffusione dei droni condurrà a una maggiore stabilità o piuttosto al contrario a una maggiore instabilità? La seconda purtroppo la risposta più plausibile. L’equazione secondo cui più armi conducano a più sicurezza si basa su un concetto abusato e malamente usato di deterrenza – afferma Raul Caruso-. Da un lato la deterrenza ha funzionato solo in un mondo bipolare come quello della Guerra Fredda ma ha fallito in altri contesti storici come quello ad esempio precedente alla Prima guerra mondiale».

In un mondo con almeno tre grandi protagonisti (USA, Russia e Cina) e un gruppo nutrito di medie potenze l’idea che la deterrenza possa generare stabilità è fallace e ingannevole. Affermare il contrario è estremamente pericoloso.

Se le guerre costano meno ne puoi fare di più

A peggiorare la situazione è la percezione secondo cui per mezzo dei droni i conflitti possano essere meno distruttivi e meno costosi. I droni percepiti come dispositivi d’arma in grado di far condurre guerre low-cost sia per i bilanci statali sia per accettazione da parte dell’opinione pubblica in particolare nelle democrazie. Gli Stati Uniti sotto la presidenza Obama, ad esempio, avevano dato una spinta decisiva all’uso dei droni nel momento in cui i budget della difesa erano sottoposti a una riduzione. E dato che la tecnologia si è diffusa, più droni armati per tutti e a minor costo.

Anche le guerre Low-cost

«In pratica, la possibilità di condurre una guerra low-cost adesso appare concreta non solo per gli Stati Uniti ma anche per molte altre nazioni. Ed ecco che gli accordi internazionali sulla proliferazione di armamenti vanno totalmente rivisti: l’ATT, l’Arms Trade Treaty, il trattato sul commercio delle armi, con un stringente patto multilaterale di non proliferazione e di monitoraggio dei droni militari. «Nato e amministrazione Usa dovrebbero impegnarvisi –sollecita Avvenire-. C’è il rischio che il loro utilizzo sempre più intensivo finisca per aggravare in particolare le guerre regionali».

L’allarme del generale Kenneth McKenzie

Diversi analisti citano il generale Kenneth McKenzie che ha indicato nella proliferazione di droni accessibili una delle minacce più urgenti da fronteggiare anche perché questi potrebbero cadere nelle mani di gruppi terroristici. Quindi serie preoccupazioni sulla proliferazione di conflitti armati, anche se i droni hanno ancora un raggio d’azione limitato e quindi prevedibili protagonisti in contesti regionali. Concusione realistico pessimista: «La stabilizzazione delle aree tuttora dilaniate da conflitti, dunque, appare lungi da essere raggiunta».

Non proliferazione e monitoraggio sui droni armati?

Conclusioni di Raul Caruso, docente alla Cattolica di Milano e direttore di Peace Economics: «è chiaro comunque che con i droni le limitazioni previste dall’Arms Trade Treaty non bastano. Il trattato si basa sul principio che siano gli Stati stessi a controllare le proprie esportazioni di dispositivi d’arma». E questo, guardando persino in casa nostra, non garantisce molto. Un impegno multilaterale di non proliferazione e di monitoraggio dei droni armati? Un obiettivo nobile ma certo non facile. Con uno spunto di ottimismo, almeno espresso dal quotidiano dei Vescovi. Così motivato.

Dato che la nuova amministrazione americana a guida Joe Biden sembra aver abbandonato le spinte al riarmo globale del recente passato, una maggiore cooperazione tra USA e alleati europei della NATO ‘in questo senso dovrebbe essere auspicabile’. Purtroppo non è quello che a noi sembra di aver sentito nell’ultimo vertice Nato.

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