
Pechino sembra in stato di guerra. I trasporti all’interno della città sono bloccati. Chi arriva da zone ritenute “a medio e alto rischio epidemico” non può entrare nella capitale, e questo vale anche per gli impiegati statali e i dirigenti delle agenzie governative. Zhuang Pinghui, corrispondente del South China Morning Post, dipinge un quadro a tinte fosche. Tutto questo mentre ancora non è chiara la vera contabilità del contagio. La scuola? L’orientamento della dirigenza comunista è che la salute e la vita della popolazione (e dei lavoratori) vengono prima dei teoremi e degli endecasillabi. Per cui, pare di capire, il ritorno in classe potrebbe essere rimandato a tempi migliori, secondo il South China Morning. Grandissima preoccupazione è stata espressa anche dalla britannica BBC, che sta monitorando costantemente l’evoluzione del contagio in Cina.
Temendo evidentemente un possibile effetto-domino sui vicini Paesi asiatici. Intanto, il vicepremier Sun Chunlan si è precipitosamente trasferito a Jiangsu, ritenuto un altro pericoloso focolaio della pandemia. Sun sta seguendo da vicino i primi interventi. Gli scienziati cinesi, dal canto loro, si affannano a spiegare che la mutazione del virus non guarda più in faccia nessuna età. E che, quindi, anche i giovani contagiano e si contagiano. Quelle prese in fretta e furia dai cinesi sono vere e proprie misure da stato d’assedio, che fanno capire con quale ansia quelle autorità stiano cercando di controllare una situazione che potrebbe sfuggire loro di mano in qualsiasi momento. Durante una riunione del Partito comunista di domenica scorsa, il segretario Cai Qi è stato durissimo e minaccioso: “Salveremo Pechino, costi quel che costi”. E chi ha sbagliato, crediamo di capire, la pagherà cara e salata.
A Pechino la nuova ondata di Covid-19 non se l’aspettava più quasi nessuno. Stato e Partito, orgogliosamente, agitavano come un trofeo numeri da Coppa dei campioni della sanità: un miliardo e mezzo di vaccinati. E tanti saluti alla pandemia. Diffuso urbi et orbi, il messaggio aveva colto nel segno, tra le mura domestiche e all’estero. Il Prodotto interno lordo stava tornando a rifiorire come ai tempi belli, per non parlare dell’export e, transitivamente, della bilancia commerciale. Ma, a rompere le uova nel paniere, ci ha pensato la “variante delta”, volgarmente conosciuta come “variante indiana”, del coronavirus. Partito (sembra) dall’aeroporto di Nanchino (il cui presidente è stato immediatamente rimosso) il contagio si è rapidamente diffuso ad almeno ventisette città e a una dozzina di province.
La reazione? Il governo ha immediatamente cominciato a “tamponare” tutto quello che si muove nelle aree a rischio, mettendo sotto la lente d’ingrandimento, in primis, la regione di Hunai. L’infezione è arrivata in zone anche molto distanti tra di loro. Dove esercito, polizia e corpi speciali controllano discretamente (mattonella per mattonella) ogni strada. Ha fatto invece più struscio la controffensiva lanciata dal governo nelle aree centrali del Paese. In particolare, a Zhangjiajie (Hunan), le autorità hanno sguinzagliato migliaia di agenti per andare a “caccia” e identificare, uno per uno, i 5 mila spettatori di un teatro che potrebbero essersi contagiati a vicenda durante una rappresentazione. Intanto, il governo cinese tenta di difendere con le unghie e con i denti la politica di vaccinazione fin qui seguita e la sua efficacia. Fa parlare insigni scienziati, (come Shan Yiming, ricercatore del Centro cinese per il controllo della pandemia) i quali tutti affermano che la “variante indiana” può colpire i vaccinati, anche se non in modo grave.
Insomma, chi è vaccinato non muore e non va in terapia intensiva. Però… però c’è ancora il rischio che possa infettare chi gli sta vicino. È una possibilità, una probabilità, se si vuole, “limitata”. Che tuttavia esiste. Per questo i cinesi, che ogni giorno hanno a che fare con i grandi numeri, hanno perso il sonno la notte. Ma adesso non vogliono perdere pure la faccia.