
Il Golfo Persico e la sua porta d’accesso, lo Stretto di Hormuz, tornano clamorosamente alla ribalta dopo l’attacco subito da una petroliera, venerdì scorso, nelle acque dell’Oman, nei pressi dell’isola di Masirah. Per la verità l’assalto si è verificato fuori dal “collo di bottiglia” del Golfo, a molte miglia dal suo ingresso. In un’area in cui la soglia di attenzione e più bassa e nella quale è, ovviamente, più difficile (almeno all’apparenza) attribuire precise responsabilità. Mancando, come in questo caso, chiare rivendicazioni. L’assalto, però, secondo i servizi di intelligence israeliani, è stato condotto da un “drone kamikaze di sicura matrice iraniana”. Per questo il Ministro della Difesa di Gerusalemme, Benny Gantz, ha annunciato che la risposta del suo Paese non si farà attendere.
Il colpo inflitto alla nave “Mercer Street”, che ha preso fuoco, ha fatto due morti (un inglese e un rumeno), mentre ancora non è possibile quantificare gli altri danni. La “Mercer”, si stava spostando dal porto tanzaniano di Dar-es-Salaam a quello di Fujairah, nel Golfo. La petroliera, che batte bandiera liberiana e trasporta greggio per una società giapponese, è della compagnia londinese “Zodiac Maritime”, di proprietà del magnate ebreo Eyal Ofer. Già questo intreccio di “cointeressenza” tra nazionalità fa capire il vespaio di commenti che il fatto ha suscitato. I primi a reagire, con estrema durezza, come già abbiamo detto, sono stati gli israeliani, che hanno accusato subito l’Iran di essere il grande regista dell’attacco.
Il Ministro degli Esteri, Yair Lapid, ha fatto una dichiarazione che suona come una minaccia. Anzi come un ultimatum: ‘Teheran è un pericolo per tutti’. E attacchi di questo genere non devono più ripetersi. Lapid ha anche aggiunto di essere in costante contatto con il suo omologo britannico Dominic Raab. Sconcerto per l’accaduto, oltre che dal Foreugn Office londinese, è stato espresso anche dal Dipartimento di Stato americano. E navi della Quinta flotta USA hanno scortato la “Mercer” in un porto sicuro della regione. A complicare lo scenario e giunta dall’Arabia Saudita anche la notizia che una nave di Riad è stata attaccata, nel Mar Rosso, con dei “droni” lanciati dai ribelli sciiti dello Yemen. Si tratterebbe di un attacco sincronizzato con quello verificatosi in Oman.
Intanto, s’infittiscono gli spifferi di corridoio sui veri motivi dell’assalto. Che a questo punto sembra proprio di matrice iraniana, anche se è difficile riuscire a capire da dove possa essere partito l’ordine. È stata un’iniziativa autonoma delle Guardie Rivoluzionarie? Con il “duro e puro” Raisi al potere sembra una possibilità molto remota. Piuttosto, a sentire molti specialisti della macro-area di crisi di cui stiamo parlando, l’episodio rientrerebbe in una sporca guerra sotterranea (o subacquea per dirla meglio) che Israele e Iran si stanno facendo da un pezzo nel Golfo Persico. In pratica, i due nemici per la pelle si scambiano attacchi e contrattacchi che prendono di mira navi di qualsiasi tipo (quindi non solo quelle militari), barche, barchini e pure pescherecci. Ritenuti, a torto o a ragione, possibili avamposti di “barbefinte”.
Israele, che non “confina” territorialmente con il Golfo, si appoggia logisticamente a tutti gli Stati sunniti dell’area, dall’Arabia Saudita agli Emirati. Che evidentemente preferiscono (e di gran lunga) sostenere Gerusalemme, piuttosto che cercare la sponda degli odiatissimi sciiti iraniani. Anzi, proprio alleandosi con i nipotini di Moshé Dayan, il Napoleone ebreo della Guerra dei Sei giorni, il principe saudita bin Salman spera di risolvere definitivamente la pratica degli ayatollah. Sul caso specifico, come dicevamo, s’intrecciano notizie e scoop di ogni tipo. Nei soliti ambienti “bene informati” si parla di una rappresaglia iraniana per rispondere a uno strike aereo israeliano effettuato poco tempo fa nel nord della Siria, a Qusayr, a 25 Km. da Aleppo.
Secondo il canale televisivo “Al Alam”, i caccia-bombardieri di Gerusalemme, in quell’occasione, avrebbero colpito le sedi delle milizie iraniane alleate di Damasco. La verità è che i veri nemici di Bennet e Lapid restano gli sciiti persiani e le loro milizie. sparse a macchia di leopardo, su un territorio che va dall’Irak alla Siria, per finire ai contrafforti del Libano, dove operano i guerriglieri di Hezbollah. Gli scenari si sono anche complicati per il fatto che Biden non ha cambiato gli indirizzi della politica estera americana in Medio Oriente, che Trump aveva messo a soqquadro. Obama aveva scelto il dialogo con gli ayatollah, per controllare il Golfo Persico e lo Stretto di Hormuz, per placare le rivolte in Irak e per arginare la mattanza in Siria e la crescita del terrorismo sunnita.
Inoltre, cercava di garantire alla Galilea israeliana un riparo dai razzi che partono dalla Valle della Bekaa, in Libano. Era una politica che favoriva il mantenimento strategico del Golan e che permetteva di esercitare allo Stato ebraico una sorta di protettorato fino al Monte Harmon, la vera cassaforte delle acque per questo grande spicchio di Medio Oriente. Niente di tutto questo. La politica Usa nei confronti dell’Iran è rimasta molto ostile, favorendo un ritorno in sella della componente più conservatrice della teocrazia. L’ostinazione con cui vengono irrogate le sanzioni economiche sta mettendo in ginocchio Teheran. E le reazioni del gigante sciita potrebbero diventare incontrollabili. L’Iran ha la capacità di chiudere lo Stretto di Hormuz e di minacciare quello di Bab-el-Mandeb, che attraverso il Mar Rosso porta fino a Suez.
Saturare le rotte di navigazione con mine magnetiche costa poco e fa schizzare alle stelle il prezzo dei noli marittimi. Specie per le petroliere. Non bisogna essere economisti o raffinati strateghi per comprendere cosa questo potrebbe significare per la nostra quotidianità.