
«Ritardi nel processo d’allargamento, promesse mancate, la disillusione verso Bruxelles che cresce. E allora uno zoccolo duro di Paesi balcanici ancora fuori dal club europeo che conta, anche in tempo di pace spesso su fronti opposti, decidono di cooperare. E di fare da soli, rilanciando una sorta di “mini- Schengen”, possibile alternativa alla chimera europea o forse la via per portare benessere immediato nei Balcani. Protagonisti sono Serbia, Albania e Macedonia del Nord, nazioni che stanno premendo con sempre maggior vigore sull’acceleratore che dovrebbe portare alla nascita di una sorta di mercato comune tutto balcanico», la premessa di Stefano Giantin su La Stampa, da Belgrado.
Nessuna ‘terza Jugoslavia’, a cercare di superare molte diffidenze, soprattutto da Sarajevo e Pristina, rispetto una idea politica nata a Belgrado nel 2019. «Ma ora si fa di nuovo sul serio. Lo confermano gli abboccamenti sempre più frequenti tra il presidente serbo Aleksandar Vucic, il premier macedone Zoran Zaev e quello albanese Edi Rama, che si sono incontrati più volte negli ultimi tempi per rilanciare la “Schengen” balcanica, nella prospettiva magari di includere anche Bosnia e Montenegro, con porte aperte al Kosovo».
Proposta: trasferire subito nei Balcani extra-Ue le basi su cui si fonda l’Unione, «libertà di movimento delle persone, delle merci, dei servizi e dei capitali». Obiettivo, rendere più facilmente attraversabili confini creati dopo i sanguinosi conflitti degli Anni Novanta, e permettere a lavoratori, studenti, uomini d’affari di muoversi agevolmente, anche lanciando «corridoi verdi» alle frontiere, il tutto entro l’anno.
Per il momenti ci si accontenta dell’abolizione del roaming tra Stati balcanici, e ricomporre e facilitare i collegamenti almeno telefonici tra pezzi di famiglie e amici di quei Balcani multietnici e mischiati di sempre.
Una sorta di mercato comune balcanico contro i non giustificati ritardi nell’apertura dei negoziati promessi per Tirana e Skopje, stallo per quelli formalmente aperti con Belgrado e Podgorica, Sarajevo e Pristina. Filosofia condivisa tra ancora recenti nemici: «La Ue ci snobba, cooperiamo tra noi».
E la mini-Schengen o come la vorranno chiamare, «darà ristoro all’economia, porterà benessere, ci farà trovare pronti quando l’Unione riaprirà le porte», l’idea di fondo, e se mai accadrà.
Ma non solo il presidente serbo Aleksandar Vucic, il premier macedone Zoran Zaev e quello albanese Edi Rama.
«C’è ancora un passato su cui difficilmente abbiamo identità d’opinione, con interpretazioni della storia e narrative differenti, ma esse non sono ragioni sufficienti per non voler migliorare le cose attraverso l’economia», sostiene il politologo sarajevese Adnan Huskic. «E poi non è un’alternativa alla Ue, ma un complemento. Anche se si pensa che i Balcani non diventeranno parte della Ue, ancora non vedo ragioni per non cooperare e migliorare la situazione da soli, magari accrescendo la nostra capacità negoziale con Bruxelles».
«Si tratta di una iniziativa importante per tutti i cittadini della regione, per la loro libertà di movimento, ma anche per gli Stati dell’area e sullo stesso fronte della sicurezza, perché evita potenziali conflitti in una regione non del tutto pacificata», conferma da Belgrado anche l’analista Boban Stojanovic. Da subito «maggiori vantaggi economici». Poi verranno le maturazione culturali e politiche necessarie. «È importante anche per il processo d’integrazione, è la via verso l’Ue stabilire buoni rapporti di vicinato».
Fondamentali, in una regione dove le fratture degli Anni Novanta non si sono ancora del tutto ricomposte, ma dove c’è anche voglia di guardare avanti