Multinazionali esentasse o quasi: i tre furbi in Europa contro tutti

Irlanda, Estonia e Ungheria senza vergognarsi almeno un po’. Grazie a leggi da paradiso fiscale o quasi, concedendo favori fiscali alle multinazionali con sedi formali in casa loro, toglievano aziende a tasse ai Paesi dove questi giganti economici in realtà operavano.
Giovedì scorso, 130 paesi nel mondo hanno aderito a un accordo globale – da molti considerato storico – per imporre un livello minimo di tassazione del 15 per cento alle grandi multinazionali nei Paesi dove il reddito lo producono.
Prima quei paradisi del diavolo, si prendevano soldi prodotti in casa altrui con tassazioni truffa, e ora si oppongono al rivoluzionario accordo planetario che prevede almeno un 15 per cento di tasse sul reddito da pagare nel Paese dove queste ricchezze si producono.

Accordo minimo soltanto per le società con ricavi globali di almeno 20 miliardi di euro l’anno e un margine di profitto di almeno il 10 per cento (quindi circa un centinaio di grandi multinazionali, secondo il Wall Street Journal), e potrebbe generare 150 miliardi di dollari di gettito fiscale all’anno a livello mondiale, facendo saltare la concorrenza dei paradisi fiscali e gli effetti negativi dell’elusione fiscale sui bilanci dei paesi colpiti da questo fenomeno.

Basta paradisi fiscali e dintorni

L’accordo prevede una distribuzione più equa dalla tassazione di queste società tra paesi, e di redistribuire circa 100 miliardi di dollari di tasse l’anno. Ma chi traeva vantaggio prima con sconti a danno altrui, non è certo contento. Esempio, l’aliquota minima del 15 per cento sui profitti d’impresa, sarebbe superiore a quella che attualmente le società pagano in Irlanda (12,5 per cento) e in Ungheria (9 per cento). In Italia, per fare un paragone -scrive il Post-, tra IRES (l’imposta statale) e IRAP (quella regionale), fanno pagare in media il 27,9 per cento dei profitti.

La bozza ha messo d’accordo paesi che in totale rappresentano circa il 90 per cento del Prodotto interno lordo mondiale, inclusi Stati Uniti, Cina e Russia. Ma i governi di Irlanda, Ungheria ed Estonia dicono di No

Irlanda, Google e Facebook

L’Irlanda a interesse doppio: una tassa sui profitti del 12,5 per cento, e alle imprese che traggono profitto da brevetti e software un’aliquota dimezzata, del 6,25 per cento. Vale per società operanti su Internet che offrono servizi digitali in tutta Europa attraverso i loro software, come per esempio Google e Facebook. Fino al 2015, il paese è stato in grado di attrarre grandi multinazionali americane grazie a un regime fiscale ancora più permissivo.

‘Double Irish’ e ‘Dutch sandwic’

Una strategia chiamata “Double Irish”, con la creazione di due società di diritto irlandese. Abbinata spesso a un’altra fuirberia, chiamata “Dutch sandwich”. E la strategia di elusione fiscale molto complessa consentiva alla multinazionale di pagare in tasse cifre molto basse sui profitti generati fuori degli Stati Uniti, tra il 2,2 e il 4,5 per cento, tra il ridere e la vergogna. «Ma l’Irlanda dovrà in qualche modo scendere a compromessi sull’accordo, perché ha bisogno del supporto dell’Unione Europea e degli Stati Uniti nelle sue trattative sulla Brexit con il Regno Unito», è l’analisi del Post.

Ungheria più ricca e meno libera

In Ungheria, la politica fiscale permissiva introdotta dal primo ministro, Viktor Orbán, ha aiutato l’economia a crescere nonostante la regressione del paese sul piano dei diritti civili. Ma proprio a causa di questa regressione che rende incerta l’applicazione delle leggi –la garanzia del diritto- , le aziende ora non avrebbero altro incentivo a delocalizzare in Ungheria se non quello fiscale. Ma con Orban i problemi saranno altri.

Poi il caso dell’Estonia

In questo paese baltico, altra agevolazione altro trucco, se un’impresa decide di reinvestire i propri profitti, questi non vengono tassati. Ogni anno un nuovo reinvestimento proposto, e il pagamento delle tasse slitta per anni. Problema oggi, che con le nuove regole l’Estonia rischia di vedere altri paesi raccogliere i profitti che lei non ha tassato al momento della loro creazione.

Il ricatto Ue dell’unanimità

Secondo i trattati dell’Unione, i cambiamenti di politica fiscale devono essere approvati all’unanimità, perciò l’opposizione dell’Ungheria (come quelle di Irlanda ed Estonia) sarebbero sufficienti ad impedire all’intera Ue di adottare l’accordo. L’Unione Europea costretta quindi negoziare con Orbán come successe per l’approvazione del piano di ripresa dalla pandemia, a cui si era opposta anche la Polonia.

Gli altri ‘paradisi’ per furbi a ladri

Oltre a Irlanda, Estonia e Ungheria, all’accordo non hanno aderito nemmeno Perù (perché al momento senza un governo), Sri Lanka, Nigeria e Kenya, oltre a noti paradisi fiscali come le Barbados, Saint Vincent e Grenadine.

Problemi Usa i miliardari alla Trump

Contro i paradisi fiscali, la futura possibilità per lo Stato dove opera la società, di applicare lui tasse sino alla differenza del 15 per cento per tutti, e sarebbe l’addio ‘paradisi’. Problema più grave invece in casa Usa dove Biden è sostenuto al Congresso da una maggioranza risicata, che potrebbe ridursi con le elezioni di metà mandato del prossimo anno. Repubblicani ancora a spinta Trump contrari, mentre l’approvazione del Congresso è necessaria perché il paese renda operativo l’accordo.

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