
Accordo minimo soltanto per le società con ricavi globali di almeno 20 miliardi di euro l’anno e un margine di profitto di almeno il 10 per cento (quindi circa un centinaio di grandi multinazionali, secondo il Wall Street Journal), e potrebbe generare 150 miliardi di dollari di gettito fiscale all’anno a livello mondiale, facendo saltare la concorrenza dei paradisi fiscali e gli effetti negativi dell’elusione fiscale sui bilanci dei paesi colpiti da questo fenomeno.
La bozza ha messo d’accordo paesi che in totale rappresentano circa il 90 per cento del Prodotto interno lordo mondiale, inclusi Stati Uniti, Cina e Russia. Ma i governi di Irlanda, Ungheria ed Estonia dicono di No
L’Irlanda a interesse doppio: una tassa sui profitti del 12,5 per cento, e alle imprese che traggono profitto da brevetti e software un’aliquota dimezzata, del 6,25 per cento. Vale per società operanti su Internet che offrono servizi digitali in tutta Europa attraverso i loro software, come per esempio Google e Facebook. Fino al 2015, il paese è stato in grado di attrarre grandi multinazionali americane grazie a un regime fiscale ancora più permissivo.
Una strategia chiamata “Double Irish”, con la creazione di due società di diritto irlandese. Abbinata spesso a un’altra fuirberia, chiamata “Dutch sandwich”. E la strategia di elusione fiscale molto complessa consentiva alla multinazionale di pagare in tasse cifre molto basse sui profitti generati fuori degli Stati Uniti, tra il 2,2 e il 4,5 per cento, tra il ridere e la vergogna. «Ma l’Irlanda dovrà in qualche modo scendere a compromessi sull’accordo, perché ha bisogno del supporto dell’Unione Europea e degli Stati Uniti nelle sue trattative sulla Brexit con il Regno Unito», è l’analisi del Post.
In Ungheria, la politica fiscale permissiva introdotta dal primo ministro, Viktor Orbán, ha aiutato l’economia a crescere nonostante la regressione del paese sul piano dei diritti civili. Ma proprio a causa di questa regressione che rende incerta l’applicazione delle leggi –la garanzia del diritto- , le aziende ora non avrebbero altro incentivo a delocalizzare in Ungheria se non quello fiscale. Ma con Orban i problemi saranno altri.
In questo paese baltico, altra agevolazione altro trucco, se un’impresa decide di reinvestire i propri profitti, questi non vengono tassati. Ogni anno un nuovo reinvestimento proposto, e il pagamento delle tasse slitta per anni. Problema oggi, che con le nuove regole l’Estonia rischia di vedere altri paesi raccogliere i profitti che lei non ha tassato al momento della loro creazione.
Secondo i trattati dell’Unione, i cambiamenti di politica fiscale devono essere approvati all’unanimità, perciò l’opposizione dell’Ungheria (come quelle di Irlanda ed Estonia) sarebbero sufficienti ad impedire all’intera Ue di adottare l’accordo. L’Unione Europea costretta quindi negoziare con Orbán come successe per l’approvazione del piano di ripresa dalla pandemia, a cui si era opposta anche la Polonia.
Oltre a Irlanda, Estonia e Ungheria, all’accordo non hanno aderito nemmeno Perù (perché al momento senza un governo), Sri Lanka, Nigeria e Kenya, oltre a noti paradisi fiscali come le Barbados, Saint Vincent e Grenadine.