
L’idea della Redazione Aperta è sovversiva e nasce dal conflitto. Potremmo dire che è implicita nel polemos che anima il conflitto: quella spinta necessaria che accende senso critico soprattutto quando non c’è un vantaggio personale. Non saltate sulla sedia all’apparire di questi termini desueti: non si parla di polemicuzze di ruolo o di posizionamento, nemmeno di urticanti risse di carriera, parliamo della dialettica fertile che serve a tracciare percorsi, a cercare il sentiero che si inerpica nel bosco e non l’autostrada del senso comune che quel bosco lo sradica.
Un tempo si diceva: un mondo migliore è possibile. Ora questa affermazione così piena di bellezza e con una vocazione alta a realizzare il sogno e a rendere concreta l’utopia, vive solamente nel marketing, quello che ha delegato alle grandi marche, alle multinazionali degli affari, la dimostrazione plastica del mondo migliore possibile. Dove i ricchi consumatori avranno boschi verticali e isole incontaminate da percorrere in Gucci, archistar a disegnare ponti estetici impossibili da attraversare e a mettere radici di cemento nella purezza arcaica dell’arte, multinazionali che basano sullo sfruttamento del mondo la loro potenza economica prendersi gioco di noi appoggiando battaglie di diritti civili, ben sponsorizzate. La spettacolarizzazione del tutto. Noi, poveri cari, seduti nell’arena mediatica ad applaudire, a dire che l’influencer milionario che indossa la maglia da mille euro con il simbolo della pace, è il nuovo guru.
Preferisco gli alberi nel bosco e non sul terrazzo dei super ricchi. Preferisco gli esseri umani che chiacchierano a veglia intorno a un tavolo al deserto del distanziamento sociale e culturale che ci piove dall’alto, anche fosse pop, mai popolare. Amo le parole della giovane Mira, quando mi racconta l’emozione della sua strada, che unisce la Val d’Orcia all’università, all’arrivo del famoso autore con l’autista che siede al tavolo con la bottiglia di acqua minerale e al massimo risponde alle domande prima di andarsene.
Sottrarsi da questa ritualità ci fa bene. Come recuperare l’idea di ciò che è sacro, delle radici, di quello che serve alla comunità per vivere sul territorio senza essere in ostaggio della fenomenologia triste del potere del denaro, del pacchiano senso di grandezza che la ricchezza esercita anche nelle nostre sante magiche fragili terre.
Per questo agiamo con semplicità sulla soglia, coralmente. Per questo pensiamo alle parole come semi. Per questo continuiamo a costruire brecce dentro il muro dei luoghi comuni e a fare polemica con la banalità e la decorazione, con l’idea che sia necessario mettere a disposizione il proprio spazio (fisico, culturale, sociale, sempre politico) per l’ascolto come idea formativa, per un’idea in cui la relazione e la maieutica reciproca siano fondamentali. La Redazione Aperta che esercitiamo è questo. Sgombera il campo, rimette in gioco energie, crea sinergie e sintonie, mette insieme, non divide. Restituisce voce e nello stesso tempo apre alla relazione. Funzionerà, come sempre accade, quando chi afferma si ferma ad ascoltare, quando chi ascolta prende la parola e chi agisce lo fa con gli altri. Queste le tracce per una narrazione corale. E per agire pratiche di libertà e non di obbedienza mascherata da libertà.
In questi mesi ci incontreremo e tesseremo insieme le parole per ricordare, riportare al cuore, nel profondo. Per rammentare, riportare alla mente, nella consapevolezza. Per rammendare lo straccio sfilacciato della nostra democrazia asimmetrica, seminare e coltivare, con cura e attenzione, cultura e desideri. Senza delegare. Senza attendere che qualcuno ci disegni per quello che non siamo, vestendoci in costume come in un film immerso nella cartolina, asciugando e togliendo prospettive al conflitto delle nostre esistenze, alla grandezza e purezza dell’arte.