
Il contenimento delle milizie filo-iraniane nella regione, dall’Iraq alla Siria, dagli Hezbollah libanesi agli Houthi in Yemen. «Che quest’ultimo sia un punto chiave lo dice il fatto che gli israeliani quasi ogni giorno bombardano le postazioni dei pasdaran in Siria, notizie che di solito sui media vengono passate in secondo piano ignorando che Tel Aviv conduce la sua guerra strisciante quotidiana all’Iran sia con i raid aerei che con l’infiltrazione di agenti e gli attentati ai gangli del sistema iraniano (alcuni dettagli sono stati rivelati recentemente in tv dall’ex capo del Mossad Yossi Cohen)».
«Scelta strategica è stabilire se conviene o meno arrivare a un’intesa per farsi togliere le sanzioni, cosa che non è poi così scontata. O la scelta tattica di lasciare fare l’accordo a Rohani prima che esca di scena in modo da far ricadere su di lui la responsabilità dell’intesa per poi godere delle ricadute economiche positive derivanti dalla cancellazione o dall’alleggerimento delle sanzioni. L’amministrazione Biden, a sua volta, potrebbe essere tentata da un accordo con l’Iran nell’ottica di una riduzione dell’impegno americano in Medio Oriente ma anche perché Teheran potrebbe rientrare sui mercati petroliferi e finanziari internazionali sfuggendo in parte agli accordi con la Cina, oggi vitali per la sopravvivenza della repubblica islamica».
«In primavera Pechino e Teheran hanno cambiato passo, firmando un accordo di cooperazione strategica globale di 25 anni, nell’ultimo anno e mezzo l’Iran ha venduto alla Cina in media oltre 300mila barili di petrolio al giorno mentre il patto di cooperazione potrebbe fornire un afflusso di capitali cinesi per 400 miliardi di dollari alle agonizzanti industrie iraniane. Senza contare che nel 2019 Cina, Iran e Russia hanno anche condotto esercitazioni militari congiunte senza precedenti nel Golfo di Oman e nell’Oceano Indiano, una mossa che ha sollevato forti preoccupazioni di Washington».
«Gli Americani e gli Occidentali si aspettavano questo risultato e quindi dovranno fare di necessità virtù, puntando sulla volontà dell’asse Khamenei- Raisi di arrivare comunque a un accordo sul nucleare pur di alleviare le sanzioni. Anche i teocrati più duri capiscono, infatti, che le condizioni sociali ed economiche dell’Iran stanno rapidamente deteriorandosi e che la soglia di sopportazione della gente è arrivata a un punto critico. Negli ultimi due-tre anni sono scoppiate vere e proprie rivolte popolari spontanee per protestare contro il caro- vita che sono state immediatamente soffocate. Ma oggi che, alla strutturale crisi economica aggravata dalle sanzioni si è unito anche l’impatto della pandemia, la crisi appare sempre più difficile da controllare».
«La rendita di posizione dell’Iran potrebbe essere una vantaggiosa carta da giocare per la Cina proprio nella sua lunga marcia verso Ovest e verso i mari caldi dell’Asia meridionale e del Mediterraneo. Naturalmente, di per sé il cambio al vertice della presidenza dello Stato vuol dire tutto e niente. La struttura del potere all’ interno della teocrazia persiana è talmente articolata e per certi versi complicata da sfuggire a qualsiasi analisi comparativa con istituzioni similari nel nostro continente. Il potere assoluto della sfera religiosa sopravanza sempre quello politico. E semmai nella commissione dei due bisogna sempre cercare di interpretare correttamente come si dispiega la dialettica del potere. Insomma, il fatto che l’Iran abbia scelto un Presidente conservatore non vuol dire che attuerà inevitabilmente una politica estera aggressiva».