
Da una parte l’arte sovversiva di Maria Lai, le sue leggende dolci e arcaiche, la sua performance collettiva del legarsi alla montagna il paese, il rurale visionario tenere per mano il sole che tanto ha fatto sognare e gioire. Un lavoro scavato tra le pieghe di una società dura e tesa a omologare, a rendere ogni aspetto poetico un’astrazione priva di bellezza, legata all’idea di mercato e mai stretta alla terra, alle origini, a quella tradizione potente che si genera guardando al passato dal presente, che ne recupera frammenti vitali per liberare l’animo umano dalla schiavitù.
Dall’altra parte Boeri. Usando parole lasciate a spiegazione, per giustificare questo strano rapporto: “…simbolo di questa rinnovata visione del vivere circondati dal verde, da cui trae ispirazione lo stesso Bosco Verticale…”. Il Bosco Verticale a Milano, l’opera più nota dell’archistar: due palazzi di cemento tirati su al posto di un giardino, decorati con alberi costosi di varie specie, curati a costi altissimi da giardinieri acrobati che si calano dal tetto. Dentro lo strano bosco fighetto appartamenti di superlusso per i Vip milanesi, con tanto di affaccio su un parco privato vigilato da guardie.
Leggo: “… proprio qui (a Ulassai, ndr) si ricongiunge idealmente e concettualmente (il Bosco verticale di cui sopra, ndr) con la natura e le sue radici”.
Sarò prevenuto, ma non vedo radici di cemento utili per la nostra sorte. Sarò miope, ma non vedo rapporto tra l’arte pura e necessariamente sovversiva di Maria Lai (averla conosciuta è stato un dono) e il greenwashing per super ricchi dell’archistar.