
Mustafa Darwish – tranne per un brevissimo periodo – era in carcere da allora, per presunti crimini commessi all’età di 17 anni. Accusa, «l’aver partecipato alle proteste nella provincia orientale della petromonarchia, in corso da decenni e poi riprese con più forza tra il 2017 e il 2019, con il loro carico di durissima repressione, arresti, condanne a morte e la distruzione di interi quartieri», denuncia il manifesto. Il giovane era stato arrestato nel maggio 2015. Poco dopo era stato di nuovo arrestato con l’accusa di avere foto delle proteste dell’anno precedente sul suo cellulare sequestrato.
La famiglia di Darwish ha saputo della sua morte dalla rete. Pochi giorni fa il tribunale aveva confermato la pena capitale, nonostante le proteste delle organizzazioni per i diritti umani: all’epoca dei fatti Darwish era minorenne e il processo subito, dopo un lungo periodo di detenzione preventiva, è stato giudicato una farsa dall’associazione britannica Reprieve. «È stato messo in isolamento, picchiato così tanto da perdere conoscenza molte volte. Per far smettere le torture, ha confessato le accuse contro di lui», aggiunge Reprieve. Confessione che in tribunale ha detto essergli stata estorta.
Non è la prima volta che l’Arabia saudita condanna a morte minorenni: nell’aprile 2019 era accaduto ad altri sei ragazzi, nonostante re Salman lo scorso aprile con un decreto reale (mai pubblicato in gazzetta ufficiale) abbia abolito la pena capitale per i minorenni. Gioco di magia: li condannano per crimini veri o presunti commessi da adolescenti, li uccidono dopo i 18 anni. Come Abdullah al-Howaiti, arrestato all’età di 14 anni e condannato a morte a 17. Morirà da maggiorenne.
Nel 2019 in Arabia saudita sono stati giustiziati 184 prigionieri, 27 nel 2020. Nel 2021 sono già 26 le pene capitali eseguite.