
La corrispondente dal Libano del Washington Post, Sarah Dadouch, ha scritto che in un paese dove i mezzi pubblici sono quasi inesistenti, in assenza di benzina, moltissime persone hanno semplicemente rinunciato ad andare a scuola o al lavoro. Al Jazeera fa notare che sono anche aumentati i blackout, dato che le centrali elettriche locali funzionano soprattutto a combustibili fossili: a volte la corrente elettrica salta anche per 12 ore.
Reuters scrive che a causa della penuria di materiale sanitario gli ospedali stanno rimandando gli interventi chirurgici complessi e si occupano solo delle emergenze. La campagna vaccinale contro il coronavirus è iniziata a febbraio ma sta proseguendo così a rilento che diverse persone scelgono di acquistare le dosi di vaccino sul mercato nero oppure si rivolgono ai partiti politici, che in certi casi gestiscono direttamente le somministrazioni.
Secondo una fonte di Agence France-Presse al ministero della Salute libanese, su 900mila dosi somministrate, 60mila sono state gestite da gruppi politici.
«In Libano la politica e le sue declinazioni settarie sono considerate da molti all’origine dei problemi del paese», sottolinea il Post. Dal 1943, con la nascita del Libano moderno, le tre principali cariche istituzionali (presidente, capo del parlamento e primo ministro) sono state affidate alle tre più grandi comunità nazionali, cioè rispettivamente cristiani maroniti, musulmani sciiti e musulmani sunniti. Anche il parlamento è stato diviso su linee settarie, e prevede la presenza di dieci gruppi religiosi.
Con la fine della guerra civile, nel 1990, i leader politici di ciascuna comunità hanno mantenuto il loro potere attraverso un sistema clientelare, con l’obiettivo di proteggere gli interessi del proprio gruppo.
«Questo sistema ha consentito agli oligarchi in competizione l’uno con l’altro di trasformare i legami politici e l’accesso alle istituzioni governative in privilegi economici per le élite libanesi, a spese delle politiche economiche destinate a una popolazione più ampia», hanno scritto qualche tempo fa sul Washington Post i giornalisti Jamal Ibrahim Haida e Adeel Malik. In altre parole: «I leader libanesi non hanno mai mostrato interesse ad attuare le riforme di cui il paese aveva bisogno, perché avrebbe significato indebolire il loro potere».
Il governo libanese si era dimesso dopo l’esplosione nel porto di Beirut, ma di fatto è ancora in carica perché il primo ministro Saad Hariri e il presidente del paese Michel Aoun non riescono a mettersi d’accordo sulla spartizione dei ministeri.
La situazione potrebbe sbloccarsi con nuovi aiuti dall’estero o un prestito del Fondo Monetario Internazionale, segnala il Post, «che però è sempre più scettico sulle capacità della classe dirigente libanese di mantenere le promesse e ripagare i debiti». Dette più brutalmente, non rubarseli. La crisi del 2019 è stata provocata da una specie di bolla speculativa alimentata dalla banca centrale, che però nel frattempo non è stata nemmeno sfiorata da una riforma.
«Qualsiasi soluzione che possiamo proporre va contro gli interessi della classe dirigente», ha spiegato ad Al Jazeera Marc Ayoub, dell’Università Americana di Beirut. «Vogliamo che smettano di beneficiare di una cosa da cui traggono benefici da vent’anni».
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