
Dettaglio di quel 6 giugno ’75 a Londra quando una giovane Margaret Thatcher si affacciava alla politica e lo sconosciuto Boris Johnson era ancora alle soglie dell’adolescenza. L’allora referendum confermava l’azione politica svolta sino a quel momento dal premier conservatore Edward Heat e altri prima di lui, ma segnalava assieme varie voci di dissenso, soprattutto nel partito laburista, che sostenne il referendum con lo scopo dichiarato di dare agli elettori l’ultima parola sulla questione. Ed effettivamente, mentre la maggioranza laburista si dichiarò alla fine a favore, contraria alla permanenza invece l’ala sinistra del partito. Non mancarono tuttavia voci contrarie anche nel partito conservatore e nell’estrema destra, nel Partito Nazionale scozzese (all’epoca con un solo rappresentate a Westminster), e nel battagliero Partito Unionista dell’Ulster.
Il Regno Unito aveva manifestato la volontà di aderire alla Comunità europea già all’inizio degli anni Sessanta, ma, oltre ai dubbi interni, aveva sempre incontrato la netta opposizione della Francia, rappresentata all’epoca da Charles de Gaulle. Il generale in più di un’occasione aveva espresso le sue perplessità in dichiarazioni pubbliche: memorabili furono un paio di conferenze stampa in cui il presidente francese le manifestò davanti ai giornalisti di mezzo mondo. Rimarcando il «carattere insulare del Regno Unito», de Gaulle ne affermava la diversità rispetto gli altri paesi europei ‘continentali’ che avevano sottoscritto il trattato di Roma. ‘Forse un giorno’ concesse: «È possibile che un giorno l’Inghilterra riesca a trasformarsi abbastanza per far parte della Comunità europea senza limitazioni, senza riserve e senza fare distinguo». Il punto principale era infatti che se il Regno Unito avesse davvero desiderato di entrare a fare parte della Comunità, avrebbe dovuto rinunciare a trattative particolari preliminari. Era la richiesta di accettare da subito regole, principi e costi, ma assomigliava all’intimazione una resa senza condizioni: quando poi cominciarono le trattative, fu comunque de Gaulle a farle fallire.
La più celebre veto all’ingresso inglese fu nel 27 novembre 1967. Vertice europeo ai massimi livelli e temi scottanti. I confini tra Germania e Polonia (l’assetto internazionale dopo la Seconda guerra mondiale e il successo o meno della Ostpolitik di Willy Brand), la futura esistenza dello stato di Israele (dove si era appena conclusa la guerra dei Sei Giorni) in un quadro medio-orientale in pieno subbuglio. Poi la questione inglese nel Mercato Comune. E lì de Gaulle espresse la sua idea d’Europa basata essenzialmente sull’accordo continentale con la Germania all’interno del quale lo spazio per la Gran Bretagna era molto ridotto o quasi inesistente: insomma «prendere o lasciare», ed era un no. De Gaulle – che ebbe tuttavia parole di riconoscenza per l’Inghilterra senza la quale non avrebbe potuto organizzare la liberazione della Francia occupata dai tedeschi – credeva insomma che dalla vittoria del 1945 la Francia avesse ripreso il suo ruolo di grande potenza, poco interessata quindi a dividere il potere con altri, nonostante le insistenze britanniche.
Le trattative continuarono anche con il premier conservatore MacMillan e il laburista Wilson, statisti ai quali de Gaulle manifestò più volte stima e apprezzamento personali, ma le perplessità di fondo rimanevano. In un’altra celebre dichiarazione de Gaulle disse tra l’altro: «Il popolo inglese comprende sempre più chiaramente che, davanti ai cambiamenti globali, davanti all’enorme potenza degli Stati Uniti, a quella crescente dell’Unione Sovietica, a quella rinascente degli europei continentali, a quella nuova della Cina, e tenendo conto dell’orientamento sempre più centrifugo che prende piede nel Commonwealth, vengono messi in discussione le strutture e le abitudini economiche e politiche tradizionali, e perfino la sua personalità nazionale» e con il senno di poi difficile dire che non fossero state parole profetiche.