
A dispetto dell’apparente condizione di forza e di stabilità, anche la Cina ha problemi di grande portata che la dirigenza cerca di affrontare con il solito piglio decisionista. Mi limito in questa sede a citarne uno molto importante.
Si tratta della cosiddetta “politica del figlio unico”, considerata (e non a torto) il più grande “esperimento di ingegneria sociale della storia”. Imposta da Deng Xiaoping a partire dal 1979 per arrestare una crescita demografica che sembrava inarrestabile, ha avuto successo, pur al prezzo di sterilizzazioni di massa e del ricorso all’aborto forzato. Tuttavia ora si manifestano delle conseguenze negative che, evidentemente, non erano state previste.
In effetti la Repubblica Popolare sta per essere superata dall’India come nazione più popolosa del pianeta, anche se non è questo il nodo principale. Si sta infatti verificando un invecchiamento marcato della popolazione che causa apprensione per il futuro del sistema pensionistico. Fenomeno, del resto, ben conosciuto nei Paesi occidentali (Italia in primis).
L’Accademia cinese delle scienze sociali ha pubblicato un rapporto secondo cui, se la situazione non cambia, il fondo pensioni dello Stato è destinato a prosciugarsi entro il 2035. Verranno quindi meno le riserve che ora ammontano a 4800 miliardi di yuan. Non solo: nel 2050 ogni lavoratore in attività dovrà mantenere un pensionato, ipotesi a dir poco preoccupante.
Si tratta di scenari che gli italiani, anche se illusi da redditi di cittadinanza e quote 100, conoscono benissimo. Per quanto riguarda la Repubblica Popolare, tuttavia, la notizia giunge inattesa, giacché era difficile immaginare che un Paese con una popolazione così enorme dovesse soffrire per l’invecchiamento.
In realtà in Cina la fascia degli ultrasessantenni è in pratica raddoppiata negli ultimi anni, e in tempi brevi il numero dei pensionati supererà quello degli individui attivi dal punto di vista lavorativo. Le autorità stanno pertanto pensando a un innalzamento dell’età pensionabile per evitare il suddetto collasso del sistema previdenziale.
Nel 2016 Xi Jinping ha allentato le maglie consentendo alle coppie di avere due figli, ma anche questo non è stato sufficiente. Il Partito comunista cerca quindi di correre ai ripari inaugurando la “politica del terzo figlio” per frenare un calo demografico che è addirittura superiore a quello del Giappone. Nel 2020 si sono avuti 12 milioni di neonati con una diminuzione del 18% rispetto all’anno precedente.
Non è affatto detto, tuttavia, che il cambio di rotta abbia successo. Infatti le reazioni, almeno finora, non risultano incoraggianti. I cittadini non sono entusiasti per ragioni ovvie. Si sono abituati a una maggiore capacità di spesa e i figli, purtroppo, costano. Né il Partito possiede di questi tempi gli strumenti di convinzione che aveva ai tempi eroici.
L’agenzia ufficiale Xinhua ha effettuato un sondaggio per verificare il gradimento dei cittadini circa la svolta del terzo figlio. Ebbene, il 92% degli intervistati ha risposto con un secco “no” e, con il classico stile cinese, il Ministero della comunicazione ha subito deciso di annullare il sondaggio e di cancellare lo sgradito risultato dal web.
La politica demografica avrà certamente un grande impatto sul futuro della Repubblica Popolare. Il Partito comunista è finora riuscito a contenere le tensioni sociali con misure di welfare. Ora si pensa, per esempio, di aiutare le madri affinché la nascita di più figli non causi loro problemi sul lavoro (mentre sinora tali misure erano piuttosto blande).
Occorrerà però attendere per vedere sino a che punto la popolazione seguirà le nuove direttive del Partito. Xi Jinping e il suo gruppo dirigente hanno bisogno della pace sociale per perseguire la loro strategia di espansione a livello globale. Ma è chiaro che una marcata disobbedienza civile potrebbe danneggiare seriamente i piani di Pechino.