
Nel 1917 in Europa si stava combattendo la Prima Guerra mondiale. Francia e Inghilterra erano impegnate sui campi di battaglia contro Germania e impero ottomano, ma contemporaneamente anche la diplomazia svolgeva il suo lavoro, che – lontano da occhi e orecchie indiscreti – si conduceva però su diversi tavoli.
Trovata un’intesa di massima tra le due potenze per la spartizione dell’impero ottomano (accordo Sykes-Picot nel 1916), seguirono altri accordi e promesse non sempre concordanti tra loro: allo sceriffo della Mecca Hussein ben Ali fu ventilata l’ipotesi di un grande regno arabo dalla Palestina al golfo Persico e alla comunità ebraica internazionale, rappresentata nel Regno Unito dal barone Rothschild, fu comunicato che l’impero britannico avrebbe «visto con favore» l’insediamento di una comunità ebraica in Palestina.
«National home for the Jewish people», a condizione che non fossero intraprese iniziative volte a «pregiudicare i diritti civili e religiosi delle comunità non ebraiche esistenti in Palestina».
Sykes e Picot, tra le altre cose, per smembrare definitivamente l’impero ottomano, avevano anche ipotizzato la nascita di uno stato curdo, anche se una parte del Kurdistan sarebbe stata assegnata alla Francia.
Scomparso l’impero ottomano, la Palestina non divenne però uno stato indipendente, ma fu affidata a un mandato britannico. Nel 1921, l’allora ministro inglese delle colonie Winston Churchill, affidò all’emiro Abd Allah, figlio dello sceriffo della Mecca che aveva condotto la rivolta contro i turchi, la parte orientale della Palestina: la Transgiordania rimase tuttavia sotto il controllo inglese, come pure il nuovo regno arabo dell’Iraq. Altre tensioni tra le comunità arabe cominciarono a manifestarsi a partire dal 1922, quando cioè l’Egitto divenne ufficialmente indipendente, pur rimanendo anch’esso strettamente controllato dagli inglesi.
Dopo una prima ondata di violenze negli anni Venti contro gli insediamenti ebraici che stavano aumentando in numero e consistenza, tra il 1936 e il 1939, scoppiò la cosiddetta ‘grande rivolta araba’, repressa duramente dagli inglesi, anche con un centinaio di condanne alla pena capitale, e che provocò migliaia di vittime. Nel 1937 un organismo inglese, la cosiddetta ‘commissione Peel’, suggerì quindi la spartizione tra uno stato arabo e uno ebraico, considerando anche il trasferimento di popolazioni da una parte all’altra, come era avvenuto con i greci di Turchia e come sarebbe avvenuto poi con la proclamazione dell’indipendenza indiana con l’esodo tra India e Pakistan. Le proposte della commissione Peel però naufragarono e nel 1938 una seconda commissione formulò tre nuove diverse ipotesi che caddero nuovamente nel vuoto.
Nel frattempo però, una parte minoritaria delle comunità ebraiche diede vita a formazioni paramilitari spiccatamente nazionaliste, quali l’Irgun (attiva dal 1931 al 1938 e definita ‘terrorista’ dalle autorità inglesi), che oltre ad effettuare rappresaglie sulle comunità arabe, combattevano anche le forze britanniche. La Seconda Guerra mondiale congelò le vicende, ma nel dopoguerra il confronto riprese sempre più aspro. Nel luglio 1946 un attentato dell’Irgun distrusse parzialmente l’hotel King David di Gerusalemme provocando un centinaio di vittime.
Le Nazioni Unite, nel maggio 1947, costituirono una commissione per la Palestina che – a maggioranza, ma non all’unanimità – ripropose la soluzione dei due stati, già avanzata dalla commissione Peel nel 1937: la risoluzione 181 fu approvata dall’assemblea nel novembre 1947, ma incontrò diverse opposizioni tra le due parti. Ad esempio Menachem Begin, fondatore dell’attuale partito Likud che all’epoca militava nell’Irgun e sarebbe diventato primo ministro di Israele tra il 1977 e il 1983, definì «illegale» la spartizione, come del resto, con motivazioni diverse, si opposero quasi tutti gli stati arabi.