La deferenza per l’avidità e per il cinismo
La deferenza per l’avidità e per il cinismo

Le giornate scorrono lente, in campagna, sotto il cielo di questa primavera autunnale. La stanchezza è come ansia lieve, è difficile sottrarsi dalle roboanti chiacchiere di sottofondo su tutto ciò che accade ineluttabilmente. Come spettatori apatici assistiamo allo spettacolo penoso di un’economia di stati d’animo che ci mette in scena.

Il vecchio giornalista barboso, un tempo brillante e di sinistra, quello che ci ha spiegato in questi mesi che perdere il lavoro è una sfiga, è tornato alla carica in difesa del proprio salottino di amici, puntando l’indice contro la canea che si alza dai social e costringe i poveri cristi mediaticamente noti a una specie di gogna.
Non è importante dove è cominciata la storia. Non conta perché le persone si sono trovate in mezzo alla strada o da quale bravata del vip (a mettere sconosciuti alla gogna) sia partita la vicenda.
Nello spettacolo mediatico c’è l’esaltazione della verità assoluta che blocca il fotogramma nell’attimo in cui una mano scaglia una pietra e ignora il massacro che precede quella reazione.

Di fronte a un fascismo seriale e misteriosamente tollerato, a ingiustizie sonanti e taciute, la narrazione feroce e costante parla d’altro. Racconta una realtà osservata distrattamente nel tempo del cinismo senza etica: occorre imparare dalla vita, saper navigare per ottenere i giusti approdi, capire il vento come bravi marinai. Se non puoi difendere i diritti dei più deboli, degli ultimi, non vuol dire smettere di battersi. Basta difendere i diritti di qualcun altro. Conta il gesto, elegante. E la banalità del giudizio indifferente, che pone il problema sempre su un altro piano inclinato che, guarda caso, ci costringe a scivolare e a modulare il pensiero assecondando quello del più forte, del più potente.

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Tutto questo per concludere con le parole del grande Wendell Berry, in I primi viaggi di Andy Catlett, bellissimo libro: “…Nel corso degli ultimi quaranta anni ho pensato sempre più spesso che il vecchio mondo in cui la nostra gente viveva del lavoro delle sue mani, in sintonia con il tempo e con la terra, le piante e gli animali, fosse quello vero. E che il mondo nuovo di energia a buon mercato e di denaro ancora più a buon mercato, di deferenza per l’avidità, di fantasie di liberazione da ogni freno sia più che altro una messa in scena.

Questo mondo nuovo mi pare un’accozzaglia di scenografie e costumi teatrali mai realmente credibile, un’economia di stati d’animo e fantasie al cui interno è difficile ritrovare sia il provvidenziale mondo della natura che quello eterno di profeti e poeti”…

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