I drammatici sviluppi di queste ore del conflitto Israelo-Palestinese ci costringono ancora una volta a rincorrere, in maniera spesso patetica e superficiale, gli eventi, la cronaca spicciola, ancorché tragica, della conflittualità contemporanea, ma dovrebbero anche indurci a qualche riflessione più profonda. Fra le parole che più rimbalzano in queste ore e fra i concetti più ‘ostinatamente’ invocati vi è senz’ altro quello della “pace”.

Non appare quindi bizzarro chiedersi, proprio in questo tragico frangente, che cosa si debba intendere per “pace” e cosa l’ Umanità abbia saputo concretamente costruire al riguardo sul piano teoretico. Il riferimento “teoretico”, lungi da voler sponsorizzare pacifismi sterili e massimalisti (o ‘piagnucolosi’ per dirla alla Bouthoul) già visti, è ispirato dall’ affermazione di Leonardo da Vinci, “Non v’ a bona pratica senza teoria” . Naturalmente il tema meriterebbe centinaia di pagine di trattazione, qui si propone un percorso necessariamente sintetico ma, si spera, non troppo superficiale.
Non si può non cominciare dalla Bibbia che, seppure presenta sulla pace qualche apparente contraddizione, spesso strumentalizzata, fra Antico e Nuovo Testamento, fornisce chiare esclusioni della violenza nel Vecchio e robusti indicazioni alla pace nel Nuovo. Sempre nella Bibbia va ricordato che per il concetto di pace viene in genere utilizzato il termine ebraico, ancor in uso, di Shalom che è uno dei concetti cardini della Torah e che, ironia della storia, ha la stessa radice del termine arabo Salam !!
Saltando avanti dobbiamo osservare che il concetto di “pace”, sempre meno in auge nei secoli, si è andato progressivamente appiattendo su un’accezione negativa (concetto di ‘pace negativa’ cioè pace = assenza di guerra), è ovvio che tale accezione è molto discutibile ed assolutamente minimale, infatti negli ultimi secoli si è andato consolidando il concetto, ancora poco noto, di “pace positiva” che non si limiti ad una semplice assenza di guerra. Tale evoluzione teoretica è stata innervata da alcune opere, per lo più poco note.
Nel “Progetto per una Pace Perpetua” il filosofo tedesco Immanuel Kant del XVIII secolo opera una rigorosa distinzione fra pace e tregua e mette in guardia dal definire trattati o colloqui di pace ciò che in realtà sono solo al più modesti trattati di tregua.
La validità di tale distinzione è confermata purtroppo dai conflitti contemporanei che durano ormai da decenni ( in particolare in conflitto Israelo – Palestinese in atto da oltre 70 anni, Afghanistan da oltre 40 anni, Siria, Libia etc oltre 10 anni….) in cui a ben guardare abbiamo avuto tonnellate di accordi e colloqui di tregua ma non certo di pace come invece sono stati spesso presentati. Kant auspica poi un ‘diritto internazionale cosmopolitico’ volto al mantenimento della pace universale, a tale modello si è in gran parte ispirata l’architettura ONU nel dopoguerra ma che ha purtroppo perso di efficacia negli ultimi due decenni.
Altra distinzione fondamentale è stata introdotta dal filosofo francese Mournier nel secolo scorso fra “atti di violenza” ( eventi bellici ) e “stati di violenza” ( fasi più o meno lunghe di conflittualità latente che talvolta degenerano anche in atti di violenza). Il conflitto Israelo-palestinese fornisce purtroppo un esempio paradigmatico. La “pace” quindi per Mournier è l’ assenza di “stati di violenza” e non la semplice assenza di “atti di violenza”.
Venendo ai nostri giorni, e continuando nell’approccio ipersintetico, dobbiamo citare la epocale svolta, forse ancora non ben compresa, introdotta dall’ Enciclica “Pacem in Terris” di Papa Giovanni XXIII in cui la Chiesa di fatto abbandonava la dottrina della “guerra giusta” introdotta sin da Sant’Agostino nel V secolo e che ha costituito, ed in parte ancora costituisce, il fondamento dello ius ad bellum e del diritto internazionale. In tale enciclica si affermava, in particolare per la presenza di armi atomiche, che fosse impensabile, irrazionale e illogico (“alienum est a ratione”) pensare di risolvere le controversie internazionali con la guerra. Il magistero cattolico in materia è stato poi confermato dal Concilio, dalla “Gaudium et Spes” di Papa Paolo VI ove si affermava una nuova “teologia della pace” e, cosa poco nota anche a molti cattolici, dal nuovo catechismo del 1992. In tali ultimi documenti, pur ammettendo solo la legittimità della difesa, vengono imposti rigorosi limiti di ordine etico-morale.
Ma la maggiore espressione contemporanea in materia è costituita dal pensiero del sociologo e matematico norvegese Johan Galtung, vivente, definito “il padre dei peace studies” contemporanei. Fortemente influenzato dal pensiero buddista e gandhiano ha in particolare sviluppato “Theories of Peace – A Synthetic Apporach to Peace Thinking” su commissione dell’ UNESCO e condotto in collaborazione con l’ International Peace Research Association ( IPRA ). Galtung rimane uno dei principali e più ricchi, seppure non senza controversie e critiche, riferimenti in materia. In strettissima sintesi la sua teoria della pace si basa fondamentalmente su ‘relazioni positive’ che prevedono in particolare: cooperazione internazionale, libertà dalla paura e dal bisogno, crescita e sviluppo economico, assenza di sfruttamento, eguaglianza, giustizia, pluralismo, dinamismo. Tale modello che lui chiama ‘Positive Peace’ esclude ogni ‘major violence’ ma ammette, realisticamente e senza inutili massimalismi, la possibilità che sussistano forme di ‘minor violence’. Da evidenziare che secondo Galtung la ”pace positiva” richiede il superamento dell’ economia attuale (che egli chiama “economia di morte”) per dar vita invece ad una “economia vivente” che abbia, come obbiettivo principale, non il mercato ed i profitti, ma la soddisfazione dei bisogni umani di base delle persone più svantaggiate.