
Dopo le elezioni amministrative di giovedì scorso nel Regno Unito, due fatti sono evidenti. In primo luogo il continuo declino del Labour britannico. Il partito ha infatti perduto alcune tradizionali “roccaforti rosse” e, a tale proposito, ha destato molta impressione la débacle subita a Hartlepool, città operaia del Nord dell’Inghilterra.
Qui addirittura il 52% degli elettori ha votato il partito conservatore di Boris Johnson, mentre solo il 28% ha confermato la propria fedeltà al Labour, che in precedenza deteneva la maggioranza assoluta.
Un risultato indubbiamente clamoroso, anche perché Hartlepool fa parte del cosiddetto “muro rosso”, una cintura di centri di medie e piccole dimensioni che hanno sempre votato in massa per i laburisti.
Questa volta, invece, la vittoria conservatrice è stata schiacciante, cambiando in modo significativo la mappa politica inglese. Due fattori vanno notati con attenzione.
Il premier conservatore Boris Johnson appare assai più popolare in patria che all’estero. Con la Brexit è diventato bersaglio costante delle critiche – spesso velenose – dei maggiorenti dell’Unione Europea. Ciò gli ha comunque giovato parecchio perché la Brexit non è giunta per caso. L’insofferenza britannica nei confronti della burocrazia di Bruxelles era infatti divenuta incontenibile. Johnson l’ha sfruttata in pieno solleticando l’orgoglio nazionale.
Il premier è inoltre riuscito – dopo molte e gravi incertezze iniziali – a gestire in modo efficace la pandemia dovuta al Coronavirus. Tanto è vero che, dopo la massiccia e ininterrotta campagna di vaccinazione, nel Regno le misure di prevenzione sono state allentate in maniera significativa. Uno dei pochi casi al mondo, che accomuna lo UK a Israele. Evidente che il premier è riuscito a tesaurizzare in pieno questo successo sul piano elettorale.
Assai diversa la situazione se si guarda al campo avverso. La fine dell’era Corbyn lasciò il Labour devastato dopo la pesante sconfitta subita nelle ultime elezioni nazionali. Il partito della sinistra britannica è sempre stato caratterizzato – un po’ come accadeva nel vecchio Partito Socialista Italiano – da una lotta al coltello tra l’ala moderata e quella radicale (da noi si direbbe tra riformisti e massimalisti).
Con Jeremy Corbyn prevalsero per quasi 5 anni i radicali e, come molti osservatori avevano previsto, questo fatto causò il disastro elettorale, spingendo molti elettori moderati di area laburista ad astenersi o a preferire addirittura i conservatori. L’establishment del partito, a quel punto, effettuò una decisa sterzata a destra.
Venne quindi scelto un leader nuovo assai diverso da Corbyn. Si trattava di Keir Starmer, 58 anni, celebre avvocato e deputato di lungo corso alla Camera dei Comuni. Starmer è un esponente dell’ala moderata che gli inglesi chiamano “soft left”, una via di mezzo tra il radicalismo corbyniano e il centrismo rivolto a sinistra di Tony Blair.
Si vide subito, tuttavia, che Starmer non è un leader carismatico, e non è infatti riuscito a rimettere insieme i cocci di un partito dalla storia gloriosa e ora sotto shock a causa delle ripetute batoste elettorali. Insomma il ritorno dell’ala moderata non ha condotto al recupero dei vasti settori dell’elettorato laburista in disaccordo con i progetti socialisti di Corbyn.
Dopo l’ultima sconfitta la poltrona di Starmer sembra piuttosto traballante, e già si parla della ricerca di un nuovo leader. Compito non facile poiché, all’orizzonte, non sono comparsi personaggi carismatici. Per ora Starmer si è limitato a “licenziare” la sua vice, Angela Rayner. Né vale ad attenuare il senso di sconfitta la trionfale conferma del sindaco laburista di Londra, Sadiq Khan. Ma la capitale, si sa, non segue le tendenze nazionali.
Tra l’altro i Tories sono al governo da dieci anni, mentre l’ultimo successo laburista è lontano nel tempo, e risale ai tre mandati consecutivi conquistati da Tony Blair (1997-2007).
Con Starmer azzoppato, ora nel Labour è in atto una battaglia di tutti contro tutti, senza che si veda una soluzione vicina. Così stando le cose, è lecito pensare che Boris Johnson potrà continuare a governare senza eccessivi problemi.
Resta tuttavia l’incognita dei movimenti indipendentisti. Quello gallese è rimasto molto al di sotto dei risultati sperati, e il Galles ha confermato ancora una volta di essere una regione con forte predominanza laburista.
Più incerto, invece, l’esito del voto scozzese. Qui lo “Scottish National Party” della leader indipendentista Nicola Sturgeon ha sì ribadito la sua grande forza, ma senza riuscire a conquistare (come invece molti si attendevano) la maggioranza assoluta dei seggi. Potrebbe allearsi con i Verdi per raggiungerla, ma l’operazione non è affatto semplice.
La Sturgeon ha sempre affermato di non voler percorrere la via catalana proclamando l’indipendenza in modo unilaterale. Tuttavia i sondaggi continuano a mostrare che la maggioranza della popolazione è contraria al distacco dal Regno, confermando così la posizione già espressa nel referendum del 2014.
Dal canto suo Johnson esclude categoricamente la possibilità di concedere un secondo referendum, e ha annunciato un grande programma di investimenti pubblici destinati alla Scozia. Ed è chiaro che su questo problema si giocherà il futuro del Regno. La Sturgeon ha dimostrato di essere una politica coriacea, ma certamente Johnson lo è ugualmente (se non di più). Non devono trarre in inganno i suoi atteggiamenti folkoristici, spesso derisi in ambito Ue. I sudditi di Sua Maestà, nella loro maggioranza, paiono dare credito alla sua politica percependolo come un leader forte.