
La partita geopolitica in Nagorno-Karabakh segnerà una nuova, forse determinante mossa, con l’annunciata visita nella regione contesa del presidente turco Erdogan a metà maggio, appena concluso il Ramadan.
«A fine marzo un rapporto di Human rights watch, dopo aver esaminato video diffusi sui social e intervistato ex detenuti, accusava l’Azerbaijan di aver sottoposto ad ‘abusi e tortura’ soldati e civili armeni, prigionieri di guerra tuttora detenuti in carcere», riferisce Luca Geronico su Avvenire. Di pochi giorni dopo l’appello di alcuni intellettuali italiani tra cui Antonia Arslan, Dacia Maraini e Carlo Verdone che, citando il dossier dell’organizzazione umanitaria con sede a New York, chiedevano al governo di Baku un rilascio immediato dei detenuti in base alla Convenzione di Ginevra e al cessate il fuoco concordato del 10 novembre.
I prigionieri, replica l’ambasciatore azero in Italia Ahmadzada, sono stati tutti liberati, mentre gli almeno 67 detenuti di cui parla Hrw, sono dei terroristi. Un classico di tutte le guerre. I 67 detenuti (e torturati, dice HRW) farebbero parte di un «gruppo di sabotaggio» entrato in Azerbaijan per «commettere atti di terrorismo» e che, colpevoli «dell’uccisione di civili e militari azerbaigiani», per questo sono detenuti e, precisa il diplomatico, ma «trattati nel rispetto del diritto internazionale». Anzia, i cattivi sono sempre gli altri, e anche quei siamo al copione classico.
«È solo uno degli argomenti narrativi del regime dell’Azerbaijan che, usando come scudo internazionale la Turchia, ha sempre attuato un chiaro negazionismo dei suoi crimini», la replica della scrittrice Antonia Arslan, l’autrice del famoso romanzo La masserie delle allodole, dedicato al genocidio armeno del 1915. «In Nagorno Karabakh è rientrata solo la metà dei 150mila armeni fuggiti durante gli scontri. Una popolazione a rischio di un nuovo genocidio culturale e per cui non c’è nessuna forma di tutela internazionale».
L’unica tutela è quella di Mosca che non può permettere un predominio incontrastato di Erdogan nel Caucaso.
«Il reís turco andrà nella città di Shusha – da sempre contesa e divisa a metà tra quartieri cristiani armeni e quartieri musulmani azeri – riconquistata dalle forze dell’Azerbaijan lo scorso novembre e che, posta su una collina strategica, consente il controllo di tutta l’enclave armena». Un passo importante nella strategia neo-ottomana di Ankara –sottolinea Luca Geronico-, per realizzare un “corridoio turco” che, attraverso l’Azerbaigian, potrebbe sospingere l’influenza politica della Turchia fino alle ex repubbliche sovietiche dell’Asia centrale.