
L’assedio di Sarajevo, il più lungo nella storia della guerra moderna, proseguì fino al Natale 1995 -1.425 giorni in tutto-, con un bilancio di quasi 14mila morti tra cui circa 5.500 civili, inclusi moltissimi bambini.
Dopo il conflitto, Divjak scoprirà che la Sarajevo multiculturale e multietnica per cui aveva combattuto, era destinata a morire per vizio politico di appartenenza, a completare una pulizia etnica meno violenta ma più generalizzata.
Alla fine della guerra, diede le dimissioni da generale dell’esercito bosniaco, in disaccordo con il nazionalismo musulmano del presidente della Bosnia ed Erzegovina Izetbegovic.
E lui scelse opporvisi culturalmente, dedicandosi alle nuove generazioni. L’Associazione «L’istruzione costruisce la Bosnia Erzegovina», impegnata nel sostegno a formazione di bambini e ragazzi orfani e di famiglie povere. Grazie a lui, oltre 50mila tra orfani di guerra, figli di veterani, famiglie povere e rom hanno ottenuto borse di studio per proseguire la propria formazione, anche nelle zone di campagna più colpite dal conflitto.
Dovette anche fare i conti con la giustizia serba, che ne chiese l’estradizione per il suo presunto ruolo nell’attacco di un convoglio dell’esercito jugoslavo a Sarajevo, da cui si è sempre difeso specificando di aver ordinato lo stop all’operazione. Fieramente anti-nazionalista, Divjak era considerato un traditore da frange ultra-nazionaliste in Serbia e in Republika Srpska, la ‘Entità’ serbo bosniaca inventata a Dayton, Usa, per un cessate il fuoco che poi fu elevato al rango di Pace, da allora sopravvive arzigogolata e traballante nell’incapacità interna e internazionale di ripensarla.
Dal sito dell’Osservatorio Balcani e Caucaso. Divjak generale, diceva che da piccolo avrebbe voluto studiare psicologia per capire come mai certa gente avesse tanta voglia di ammazzare. Poi, tempi di maschilismo di Stato: «Sì, i miei uomini hanno difeso Sarajevo, ma sono le donne che l’hanno salvata».
Sull’HuffPost Ivan Butina, italo-bosniaco di Sarajevo che vive oggi a New York: «Dopo la guerra, le varie comunità in Bosnia si sono sempre più mono-etnicizzate. C’è un immenso bisogno di riscoprire personaggi come Divjak. I partiti in Bosnia continuano a essere basati sull’etnia, ed è questa politica nazionalista che rende il Paese immobile». Sulla pagina della ong da lui creta sono i suoi ragazzi -quelli che ha aiutato a studiare- a fare una promessa:
«La tua eredità e la tua dedizione al popolo bosniaco non saranno mai dimenticate. Ora tocca a noi continuare il lavoro e vivere con il tuo esempio».
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