
22 anni dopo i tre mesi di bombardamenti Nato sulla piccola Jugoslavia di Milosevic, ‘guerra umanitaria’ dichiarata ufficialmente per il Kosovo, il piccolo paese di popolazione largamente albanese spesso allo scontro con quel che resta della minoranza serba in casa, riconosciuto da poco più delle metà dei Paesi Onu, che ancora non riesce a trovare una sua strada verso un futuro decente sino ad oggi negato.
Osmani ha 38 anni ma la sua età non viene considerata un problema in uno dei paesi più giovani d’Europa, in cui il 53 per cento degli abitanti ha meno di 25 anni e l’età media nella capitale Pristina arriva a 28 anni, annota Il Post. Rilievo internazionale alla sua nomina per qualche lontano e nascosto senso di colpa, oggi tutti i celebrare una nuova generazione di kosovari, «più a suo agio con la vita occidentale e stufa del nepotismo e della scarsa efficienza dei partiti tradizionali», come ha scritto Reuters. Dimenticandosi che tutti i grandi d’occidente quei vecchi protagonisti oggi censurati sono tutti figli suoi, prima fatti guerriglieri patrioti e poi capi politici e di Stato.
Il ruolo di presidente in Kosovo ha una funzione prevalentemente cerimoniale, ma si prevede che Osmani occuperà una posizione attiva nelle questioni di politica estera. In un recente discorso Osmani ha detto che una delle sue priorità sarà cercare di normalizzare i rapporti con la Serbia, paese che non ha mai riconosciuto l’indipendenza dichiarata dalle autorità kosovare. Osmani è la seconda donna a essere eletta presidente del Kosovo dopo Atifete Jahjaga, in carica dal 2011 al 2016, ma è la generazione dopo la guerra. Osmani iniziò la sua carriera politica da adolescente, come attivista per la Lega democratica del Kosovo (LDK), partito di Ibrahim Rugova, Oadre della Patria non particolarmente amato dal Kosovo combattente. Ha studiato legge all’Università di Pristina e completato gli studi all’Università di Pittsburgh, negli Stati Uniti.
Nel 2019 era stata eletta presidente del Parlamento con la LDK, che però ha lasciato lo scorso settembre per fondare il proprio partito e coalizzarsi con Vetëvendosje, il partito creato dal giovane premier Albul Kurti. E i due leader si presentano come una ‘nuova generazione di politici’ per combattere la corruzione e avvicinare il Kosovo a modelli e valori occidentali. Il Kosovo stretto tra Serbia, Montenegro, Albania e Macedonia del Nord è grande poco più dell’Abruzzo ed è Paese lacerato. La guerra mai sopita tra albanesi eredi degli Illiri d’epoca romana e gli slavi serbi venuti dal nord a conquistare per poi cristianizzarsi in quelle terre, segnate oggi da antichi monasteri difesi con fortilizi con le armi. Qualcuno ricorda che le sei stelle che si vedono sulla bandiera del Kosovo, di fatto imposta a livello internazionale, rappresentano i sei gruppi etnici che lo abitano: albanesi (sono più del 90 per cento della popolazione), serbi, turchi, gorani, rom e bosniaci musulmani. Le stelle rimangono, le minoranze no, e se e come possono fuggono, salvo appunto alcune roccaforti.
Paese giovane di età politica e umana ma di limitatissime risorse. Tredici anni da una contestata indipendenza dalla Serbia, dopo essere stato amministrato per quasi dieci anni da un protettorato internazionale delle Nazioni Unite. Il Kosovo è anche uno dei paesi più poveri del continente: il tasso di disoccupazione è attorno al 30 per cento, ed è stato stimato che dall’indipendenza più di 190mila kosovari abbiano lasciato il paese per andare a cercare lavoro nei paesi dell’Unione Europea. Nel paese persistono ancora profonde divisioni etniche accentuate dal fatto che secondo molti kosovari serbi i crimini compiuti durante la guerra del 1999 e negli anni precedenti, in cui ci furono azioni di pulizia etnica, non sono stati riconosciuti e puniti a livello internazionale.
Nel 2010 la Corte Internazionale di Giustizia, organo giudiziario delle Nazioni Unite, dichiarò la legittimità del Kosovo, che a oggi è riconosciuto da più di 100 paesi, ma non dalla Serbia o dai suoi alleati, come Russia e Cina. Inoltre, anche 5 dei 28 paesi membri dell’Unione Europea – Spagna, Slovacchia, Romania, Grecia e Cipro – non lo riconoscono, e questo impedisce di fatto al Kosovo di entrare sia nell’Unione Europea sia nell’ONU. Allo stesso tempo, nemmeno la Serbia fa parte dell’Unione Europea perché uno dei requisiti fondamentali perché possa entrarci è proprio la «normalizzazione» dei rapporti con il Kosovo. Nel suo discorso inaugurale, presentando le sue priorità per il mandato, Osmani sulla pace con la Serbia ha citato solo una parte dei conti in sospeso con la storia:
«la pace sarà raggiunta soltanto quando vedremo del rimorso e riceveremo le scuse dalla Serbia, e quando otterremo giustizia per coloro che hanno sofferto a causa dei crimini di guerra».
Nata a Mitrovica nel 1982, la “Berlino dei Balcani” con la comunità serba al nord e quella kosovara albanese a sud, divise dal fiume Ibar, Osmani ha vissuto sulla pelle il peso del conflitto, il parte ancora irrisolto. Ora Osmani lavorerà in tandem con il nuovo governo (molto al femminile: sei ministre su 15 e un terzo delle deputate in tutto il Parlamento) del premier Albin Kurti, l’ex studente ribelle, nazionalista di sinistra, che lo scorso 14 febbraio ha vinto le elezioni con oltre il 50% dei voti. Insieme dovranno cercare di risollevare un Paese colpito dalla pandemia (1.900 morti e ospedali al collasso), ridare speranza ai giovani che ogni anno emigrano in massa, risollevare l’economia di questa minuscola nazione con meno di due milioni di abitanti con un reddito medio di 500 euro e una disoccupazione alle stelle che supera il 50%.
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