
Prima che le autorità spagnole riconoscessero che in Lombardia infuriava la peste trascorse un certo periodo di tempo tentando nel frattempo di dare anche un nome diverso alla malattia chiamandola semplicemente febbre. Il medico e docente universitario Ludovico Settala, che oggi chiameremmo forse ‘virologo’, ammonì però con un certo anticipo che a Lecco era scoppiato il contagio, ma – scrisse Manzoni – «non per questo fu presa veruna risoluzione». Illustri medici inviati a Como per indagare furono convinti da un ‘barbiero’ (una sorta di chirurgo popolare) «che quella sorte de mali non era Peste». Poiché però le cattive notizie continuavano, due ispettori si recarono dal governatore Ambrogio Spinola a riferire la gravità della situazione, ma il pensiero della guerra in corso fu ritenuto fonte di maggiori preoccupazioni e si tacque. Per la nascita dell’erede al trono di Spagna principe Carlo furono così ordinate pubbliche feste, le cui conseguenze si rivelarono devastanti per la diffusione del contagio, e alla fine la figura del governatore cadde nel discredito generale. Il tribunale della sanità, massima autorità in quel campo, «chiedeva e implorava» senza ottenere nulla e la peste arrivò a Milano imperversando per lunghi mesi, ma soprattutto accusando del contagio gli untori.
La storia della pestilenza riversata da Manzoni nel romanzo è costituita da tanti elementi che non possono definirsi nuovi: almeno dai tempi di Tucidide le epidemie sono state sempre riconosciute con grande riluttanza dai pubblici poteri nel timore di dover affrontare provvedimenti drastici sul piano sociale ed economico e contemporaneamente anche la popolazione ha sempre assunto due posizioni opposte, ovvero la negazione insostenibile o la richiesta di estremi provvedimenti. In generale regimi assolutisti o autoritari, esercitando più controllo sulla popolazione, hanno negato con maggiore frequenza degli altri i pericoli per la salute dei cittadini, ma ci sono state anche delle vistose eccezioni. Nel 1910, a Napoli, Henry Downes Geddings, un medico americano, lanciò un segnale di allarme relativo a numerosi casi di colera non riconosciuti ufficialmente. Geddings non era un candido filantropo del New England, ma un funzionario governativo americano che dal cuore del Mediterraneo – il porto di Napoli era l’incrocio delle principali rotte commerciali e già nel 1884 c’era stata un’epidemia di colera – informava le autorità del suo paese sui possibili contagi in arrivo negli States. Le dimensioni dell’epidemia furono tali che, non bastando più i provvedimenti locali, fu fatto ricorso al governo a Roma che si adoperò indubbiamente nel contenere i contagi, ma in ogni caso minimizzando la situazione.
Notizie dei fatti di Napoli arrivarono comunque alla stampa internazionale e una prima eco si manifestò nel 1913, quanto Thomas Mann pubblicò il racconto “La morte a Venezia”: il protagonista, prima di morire appunto di colera, attraversando le calli della città sente un forte odore di disinfettante e legge anche i manifesti affissi dalle autorità sanitarie che parlano di ‘febbri’, ma negano si tratti di un’epidemia. Una ventina di anni dopo, a Roma, si verificò un’altra epidemia di tifo che fu scoperta casualmente: il regime fascista intercettava le comunicazioni telefoniche e dal colloquio tra due medici venne a sapere del tifo diffuso in un quartiere periferico. Solo dopo più di mezzo secolo, ovvero quando furono resi pubblici i testi delle intercettazioni conservati nell’archivio centrale dello Stato l’episodio fu conosciuto. Altri casi – in verità isolati, ma comunque legati ad una malattia contagiosa come la peste – si verificarono poco dopo la fine della Seconda guerra in alcuni porti del Mediterraneo quali Taranto, Ajaccio e Marsiglia e verosimilmente anche in alcune località del Nordafrica. Questa volta a trarre ispirazione dalla cronaca e soprattutto dalle contraddittorie notizie ufficiali fu lo scrittore francese Albert Camus, che ambientò ad Orano, in Algeria, il suo romanzo più famoso.