Della serie: sbagliando non si impara
Della serie: sbagliando non si impara

Giriamo a vuoto. Una stanchezza assoluta prende corpo, un sonno necessario della ragione, un lieve potente desiderio di un altrove. Di essere altrove. Come luogo, come tempo, come circostanze della vita che implicano lavoro, relazioni, progetti.

Ogni passo è una conquista faticosa. E ogni conquista, passo dopo passo, viene messa in discussione da tutto quello che ci svuota e ci riempie. Ci svuota di energie e di pensiero critico, ci riempie di certezze assolute per lo più vacue e di richiami costanti a lasciar perdere. A chiudersi in casa. A seguire pedissequamente quanto i competenti hanno pensato, quanto i governi hanno stabilito pensosamente, e i sorridenti demoni televisivi hanno comunicato. 

Possiamo anche drogarci, perdere lavoro, non trovarne mai uno, morire di stenti, non aver un letto, deprimerci. Ma decorosamente eh, senza mai alzare la testa. Qualche volta la voce si può alzare, però in coro. Se a bocca chiusa, è meglio. Se è in collegamento in una delle orride arene mediatiche meglio ancora. Blaterare per sfogarsi.

L’agire, con tutto quello che compete al fare del pensiero un’azione, all’approfondimento e all’intuizione, è roba del passato. Come la destra e la sinistra, il fascismo e l’antifascismo, il teatro, la poesia, l’idrolitina, le sezioni di partito, i collettivi, il bene comune. 

Il virtuale amplifica e rende facile il non agire. Con tutto quello che compete all’inazione, cioè il non pensare, il non fare, il non approfondire, il conformismo e il realismo schiacciato sui media. Qualcosa che fa movimento e chiasso, ma non smuove; tiene impegnati ma non serve a nient’altro. 

Sirene del presente. Suadenti e impegnate nel vanificare. Nell’organizzare meravigliosi giri di giostra, cavalcando cavalli possenti e carrozze incantate al suono di magnifiche musiche di sottofondo. Per poi scendere dalla giostra convinti di aver cambiato il mondo sul bianco destriero. Mentre le idee che dovevano renderci migliori, e rendere migliore il mondo, naufragano nel mare dell’indifferenza.

Questo è l’orizzonte. E ci spinge a mettere fine a ogni ipotesi che non sia considerata dagli alieni di successo dei media, intellettuali della bandiera bianca (la nostra) a sventolare felice. 

Eppure, mortificati dalle ingiustizie globali, umiliati da un’informazione di guerra, sconfitti ripetutamente sul campo di battaglia della giustizia sociale, dell’ecologia usata come grimaldello per devastare i territori e disboscare le montagne, non riusciamo ad arrenderci. È come un virus la sovversione e noi poveri cristi non conosciamo l’antivirus. 

È tutto chiaro, lo vedo, lo percepisco e comprendo le ragioni buonissime della resa incondizionata, ma per qualche arcaico meccanismo anarchico, non è possibile.  Meglio la fatica del passo dopo passo. Del pensiero che si fa azione. Della solitudine e del girare a vuoto, del recuperare i frammenti di senso in una società che sta disperdendo i propri valori, la bellezza e la poesia del vivere, l’abitare comunitario semplice. Il lentius, profundius e suavius in un agire politico che tanto sarebbe utile per cambiare verso.  

Ps. Riflessioni in tempi di pandemia, applicabili anche alle epiche sconfitte degli anni passati. Sante, magnifiche sconfitte che ci rendono esseri umani 

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