
In questa zona, secondo analisti locali, l’Iran -tramite milizie sciite irachene- avrebbe da anni una roccaforte di controllo lungo il corridoio che va dall’altopiano iranico al Mediterraneo, passando per Siria e Libano. Dopo il raid, è stata per prima la Cina a protestare, chiedendo agli Stati Uniti il rispetto della sovranità della Siria e di evitare “nuove complicazioni” nel Paese mediorientale. Pechino, ha scandito il portavoce del ministero degli Esteri, Wang Wenbin, «chiede a tutte le parti interessate di rispettare la sovranità, l’indipendenza e l’integrità territoriale della Siria».
Il Pentagono, tornando ad una buona pratica pre Trump, aveva prima consultato gli alleati, ora spiega che il raid è in risposta all’attacco missilistico in Iraq dello 15 febbraio nel quale ha perso la vita un contractor e sono rimasti feriti militari statunitensi e di altre forze della coalizione. «I raid hanno distrutto diverse strutture al confine, utilizzate da una serie di milizie filo iraniane», precisa il portavoce del Pentagono John Kirby. «E invia un messaggio inequivocabile: il presidente Biden agirà per proteggere il personale della coalizione americana. Allo stesso tempo – rimarca Kirby – abbiamo agito in modo deliberato puntando a calmare la situazione sia nella Siria orientale sia in Iraq».
I missili erano stati lanciati da un’area a sud di Erbil, la capitale del Kurdistan iracheno, vicino al confine con la provincia petrolifera di Kirkuk, ed erano stati rivendicati dal gruppo sciita ‘Awliyaa al-Dam’, Guardiani del Sangue. L’Iran nega di avere legami con queste milizie. La scorsa settimana un missile è stato lanciato nella Zona Verde di Baghdad che ospita le ambasciate, compresa quella americana. Non ci sono state vittime. La Casa Bianca non ha accusato alcun gruppo specifico ma ha fatto sapere di ritenere l’Iran responsabile delle azioni dei suoi ‘delegati’. «Molti di questi attacchi sono stati portati avanti con armi prodotte o fornite dall’Iran», ha dichiarato il portavoce del dipartimento di Stato, Ned Price.
Nessun rapporto diretto con l’accordo nucleare strappato da Trump, ma tutto in qualche modo si collega. Teheran sta facendo pressioni su Washington affinché ritorni nell’intesa sul nucleare iraniano del 2015. Biden ha aperto al negoziato, ma la strada appare ancora lunga e in salita.