
È capitato a tutti, almeno una volta, di sentire pronunciare l’espressione «Parigi val bene una messa» non conoscendone però il contesto storico e di conseguenza nemmeno l’esatto significato. La celebre frase fu pronunciata da Enrico di Navarra alla fine del Cinquecento, periodo molto travagliato in cui la Francia era devastata da una terribile guerra civile conosciuta anche come la «guerra dei tre Enrichi», ovvero Enrico di Guisa, Enrico III e appunto Enrico di Navarra. Dopo anni di sanguinosa guerra di religione tra cattolici e protestanti – nel corso della quale si verificarono anche episodi molto cruenti come ad esempio la «notte di San Bartolomeo» – vinse Enrico di Navarra, divenendo così il primo monarca del ramo Borbone a prendere il trono di Francia. Però, a questo punto, divenne necessario per il futuro re, che era ugonotto e di religione protestante, convertirsi al cattolicesimo per poter salire sul trono e fu proprio prima di farsi cattolico che Enrico IV pronunciò la famose parole, indicando che valeva la pena di sacrificarsi per ottenere uno scopo elevato, ossia rinunciare alla fede protestante in favore di quella cattolica pur di conquistare il regno di Francia. Enrico nominò anche un ministro delle finanze protestante per risollevare la Francia che a causa della guerra versava in una crisi economica ottenendo apprezzabili risultati, ma nel 1610 un fanatico cattolico lo pugnalò a morte.
Un periodo di eclatanti cambiamenti di posizione fu senza dubbio la rivoluzione francese. Mentre sullo sfondo tanti modesti comprimari oggi dimenticati lo fecero almeno una volta, vale la pena di ricordare due personaggi che, nonostante vari cambiamenti, rimasero al loro posto. Il primo fu Charles Maurice Talleyrand: vescovo all’inizio della rivoluzione, si liberò del pastorale per diventare il ministro degli esteri di Napoleone, ma alla sua caduta continuò a rivestire l’incarico per il nuovo re: con abilità al congresso di Vienna salvò la Francia dalle mire dei suoi nemici. Il secondo fu il ministro di polizia Joseph Fouché: fu ardente rivoluzionario votando la condanna a morte di Luigi XVI, fu ministro di polizia di Napoleone e, soprattutto grazie alla rete di spie, fu inizialmente confermato al suo posto dopo la Restaurazione. Molto più sfortunato fu il cambiamento che fece invece il maresciallo Ney, veterano delle guerre napoleoniche: alla notizia della fuga di Napoleone dall’isola d’Elba, aveva detto ingenuamente al re «Maestà, lo riporterò a Parigi in una gabbia!». Quando però si trovò faccia a faccia con l’ex imperatore non solo non diede alle truppe l’ordine di sparare, ma gli consegnò la spada. Combatté a fianco dell’imperatore l’ultima battaglia a Waterloo, ma infine fu processato per alto tradimento e fucilato.
Molto più numerosi i casi nostrani di disinvolte scelte o cambi di casacca. Sebbene le malelingue sostengano l’esistenza di un carattere nazionale incline alla spregiudicatezza o al cinico realismo, è altrettanto vero che le vicende della storia d’Italia sono molto più complicate di altre. Esemplare il comportamento dei duchi di Savoia e dei cambi di alleanze internazionali nel XVII secolo: discutibile finché si vuole, ma il piccolo ducato crebbe comunque. Dall’età comunale e delle signorie, dal Rinascimento al Risorgimento e all’Unità nazionale si assiste insomma a decine e decine di vicende simili. Le più recenti appartengono alla storia politica immediatamente successiva all’Unità, ma alcuni moralisti ricordano che anche Camillo Benso di Cavour, diventato primo ministro nel 1852 con un programma ‘moderato’, aveva ottenuto però anche l’appoggio dell’opposizione di sinistra guidata da Urbano Rattazzi. Giuseppe Giusti, più meno in quegli anni, descriveva anche il signor «Girella emerito», che nelle tasche aveva sempre pronte una decina di ‘coccarde’ e dunque non solo tricolori. I cambiamenti diventano però cosa normale e alla fine Agostino Depretis e Francesco Crispi teorizzarono (e praticarono) il trasformismo parlamentare: per governare bastavano i voti di tutti senza distinzione, anche di coloro i quali poco prima si erano dichiarati contro il governo.
In maniera tutt’altro che tranquilla per entrare nella Prima Guerra mondiale, fu rovesciata un’alleanza e per uscire dalla Seconda avvenne lo stesso con conseguenze ancora più drammatiche. Il maresciallo Badoglio, che aveva ottenuto dal regime fascista onori e prebende, si scoprì all’improvviso democratico ed altrettanto accadde al suo re che aveva sempre controfirmato senza discutere tutte le leggi della dittatura, comprese quelle razziali: entrambi poi erano convinti di essere ancora buoni per la stagione successiva. Malevole maldicenze o no, resta il fatto che perfino una grande opera letteraria del secolo scorso ha elaborato una propria dottrina sugli ‘ex’, ovvero sui tanti che, abbandonando un sistema, diventano poi i fondatori di un altro risorgendo a nuova vita. Il monologo disincantato del principe di Salina, protagonista de ‘Il gattopardo’ di Tomasi di Lampedusa, contiene un modello che – secondo illustri storici – si presenta con frequenza, quasi con ‘regolarità’, nella storia d’Italia: accadde dopo l’Unità, dopo la marcia su Roma nel 1922, dopo il 25 Aprile 1945 e dopo il 1989. Qualcuno incredulo si stupisce, ma assomiglia al protagonista di un famoso film che rievoca la giornata dell’Otto Settembre 1943 che, in una telefonata agitata dice tra l’altro: «È successa una cosa incredibile: i tedeschi si sono alleati con gli americani!».