
800mila persone ‘ufficiali’ per l’Unhcr, ma molte di più nei fatti e nei bisogni. «La maggior parte dei siriani qui sono lavoratori stagionali: attraversano il confine e non sono nemmeno registrati», riferisce il responsabile locale per l’agenzia dei Rifugiati. Scontri tra profughi siriani e libanesi residenti, sovente. Il povero con troppi ospiti in casa. Scontri, incendi dolosi di tende e camp, fughe, crudeltà.
Cosa sta accadendo in quella terra di ospitalità antica? «Da più di un anno, il Libano ha accumulato un debito pubblico che ha raggiunto i 93 miliardi di dollari nel 2020, e una serie di governi fallimentari, contestati duramente e accusati di corruzione già durante la rivoluzione dell’ottobre 2019». Le proteste di piazza rimaste da allora senza risposta, e poi la catastrofe da irresponsabilità colpevole che distrugge Beirut.
2.750 tonnellate di nitrato di ammonio dimenticate in hangar del porto che, esplodendo, sfigurano la capitale. 204 morti, 6500 feriti e 300mila sfollati tra i 2 milioni di abitanti. Una distruzione di cose e si persone inimmaginabile. Ma da allora, insiste ’Avvenire’, «Il governo non ha varato alcun programma di ricostruzione, affidato solo a investimenti stranieri – soprattutto francesi – e ad aiuti straordinari delle organizzazioni internazionali e delle ong, soprattutto nelle zone prospicienti al porto, le più colpite».
La favela di Karantina, i quartieri popolari di Geitawi e Rmeil, la nuovissima Downtown con le costruzioni avveniristiche progettate da Zaha Hadid, l’area della movida di Mar Mikhail e Ashrafye, un agglomerato di antichi palazzetti liberty, alternati a modernissimi condomini in vetro e acciaio.
Il debito pubblico che ha raggiunto i 93 miliardi di dollari, e governi fallimentari sono stati duramente contestati, ci ricorda ancora Avvenire. Ma il peggio in Libano è quotidiano, ci ricorda Pierre Haski su Internazionale. Il 4 febbraio, sei mesi dall’esplosione nel porto di Beirut, la scoperta del corpo di un celebre intellettuale, Lokman Slim, ritrovato con diversi proiettili in testa all’interno della sua auto nel sud del Libano.

«Scrittore ed editore di 58 anni, ex studente di filosofia a Parigi, baluardo della società civile, sosteneva la laicità e l’emancipazione della politica libanese dai confessionalismi religiosi. Ma soprattutto Lokman Slim era uno sciita che viveva in un quartiere ritenuto un feudo di Hezbollah, l’organizzazione filoiraniana da lui ferocemente criticata. Questa dimensione della sua personalità fuori del comune è al centro del dibattito a Beirut».
La settimana scorsa la presidenza francese aveva invitato l’amministrazione Biden a mostrarsi realista e a non escludere Hezbollah dal processo politico libanese. «Quale sarebbe stato l’interesse di Hezbollah nel commettere un omicidio in un contesto in cui controlla lo scenario politico del paese, oltretutto in un momento segnato dal rinnovamento diplomatico con il cambio di amministrazione a Washington?». Nessuna buona risposta.
Una mossa di valenza locale con cui Hezbollah tenta di ridurre al silenzio qualsiasi critica all’interno della comunità sciita o se invece vada letta a livello internazionale nell’ambito delle trattative sull’Iran e sul nucleare.
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