Memoria. Quando gli ebrei di Sarajevo condivisero l’assedio con i musulmani eredi di chi 500 anni prima li aveva salvati da Isabella di Castiglia
Quando gli ebrei di Sarajevo condivisero l’assedio con i musulmani eredi di chi 500 anni prima li aveva salvati da Isabella di Castiglia

L’assedio di Sarajevo, guerra con modalità medioevali, inizia nel 1992, esattamente 500 anni dopo il decreto dell’Alhambra, l’editto di Granada con cui i re cattolici di Spagna, Isabella di Castiglia e Ferdinando II d’Aragona, imponevano l’espulsione delle comunità ebraiche dai regni spagnoli.  

Anno fatale quel 1492 nelle terre di Isabella, da dove stava per partire il mio concittadino genovese Cristoforo Colombo, lui a navigare verso le Indie su una nuova rotta, salvo inciampo di un nuovo continente a metà strada. Coincidenze di eventi capitali. Restiamo ai nostri ebrei di Castiglia e Aragona, costretti a fuggire, ma dove? Per loro fortuna, le terre balcaniche, da Costantinopoli verso nord, erano già in gran parte possedimento dell’impero ottomano, compresa l’attuale Bosnia. E per loro ulteriore fortuna, regnava un illuminato sultano, Bayezid II, ‘il Giusto’, figlio di Maometto II, che li autorizzò a stabilirsi nelle sue terre: un invito che sembra sia stato accolto da ben 300.000 persone. Pare che, commentando l’espulsione degli ebrei spagnoli, il sultano disse: «Come sono sciocchi i re spagnoli che espellono i loro migliori cittadini e li lasciano in mano ai loro peggiori nemici».

Nel 1992  nella Sarajevo dell’assedio, dei cecchini e della fame, gli eredi di quegli ebrei di Spagna li ho conosciuti, frequentati, spesso ammirati. Li ho persi poi, nel difficile dopoguerra dove, nella Sarajevo della difesa multietnica, vinsero le appartenenze e le identità contro. Pulizia etnica meno cruenta ma sistematica. E la Sarajevo che avevo tanto amato, l’ho persa. Ma non la memoria di tanti amici bosgnacchi musulmani, serbi, croati, e gli eredi di quegli ebrei scacciati da Isabella. Ebbene, la comunità ebraica di Sarajevo, numerosa e molto ben inserita, fu parte importante nella resistenza della città e dei suoi diecimila abitanti prigionieri. Tra i meccanismi di solidarietà organizzata, di alcuni ho memoria netta. La loro organizzazione di assistenza, Benevolencija, benevolenzia a leggerla, una sorta di Caritas ebraica che serviva minestre calde a chi poteva raggiungerla senza fare da bersaglio ai cecchini appostati – altra coincidenza –  sull’altura del cimitero ebraico; ma soprattutto era medicine salvavita e radioamatori. Come riuscissero a far passare nell’assedio i pochi medicinali possibili, non l’ho mai saputo perché alcune cose non si chiedono. So della loro rete di radioamatori che hanno ricongiunto famiglie e segnalato tragedie prima di altri: per la Rai, io stesso, appresi lì le prima voci, i primi allarmi sulla strage ancora inimmaginabile di Srebrenica.

Benevolancija e Sinagoga non erano facili da raggiungere nella nuova mappa urbana da cecchino. Erano sull’altra sponda della Miljacka, il fiume di Sarajevo che allora divideva per gran parte i due fronti, a ridosso della montagna delle postazioni serbe. E ogni ponte da attraversare senza blindato era preghiera per chi aveva fede e corsa per buone gambe, sperando in qualche distrazione o pessima mira di cecchino. Sul finire del 1994, proprio dalla Sinagoga, filmai per il Tg1 la partenza delle famiglie ebree, vecchi, donne e bambini. Tanti e piangenti, forse con la paura di una tregua promessa e da verificare sulla pelle, ma soprattutto nella percezione dell’abbandono definitivo delle terra dove erano nati. Nuovi cittadini israeliani ora, e chissà cosa ricordano di allora. Vedere una parte di popolo ebraico in fuga fu segnale terribile per tutti quelli tra noi che avevano memoria della Shoah. Allora vidi alla partenza molti dei rappresentanti della comunità a coordinare, a salutare e a piangere. Ma  rimanevano.  Raccontato lo strazio e l’allarme tragico di quell’addio, il giorno dopo tornai alla Sinagoga, dal rabbino a chiedere. Minaccia di assalto finale a Sarajevo? E poi, perché loro ancora lì, prigionieri volontari? 

Nessun attacco finale, ma bambini e donne, ormai stremati, a cui evitare il terribile inverno 1994 che si preparava. Ma loro, figli di quegli ebrei accolti a Sarajevo 500 anni prima, a pagare con solidarietà fattiva un debito di accoglienza nei confronti di quel popolo e della Storia.

Dopo il 2000 ho dovuto dirigere per un anno la sede Rai di Gerusalemme, in piena seconda intifada, non quella delle sassate ma quella delle autobomba. Esperienza durissima sia professionale che umana. Molti amici ebrei e molti amici palestinesi, e tanti non amici. Ho avuto l’occasione di intervistare l’ex presidente e premio Nobel per la pace Shimon Peres, e il fastidio di scoprire seduto al tavolino accanto un Benjamin Netanyahu. Cresciuto nella cultura dell’antifascismo praticato e nella memoria della tragedia dell’Olocausto, in questa occasione il mio pensiero non va a Gerusalemme o agli orrori che ho sentito sulla pelle visitando alcuni dei campi di concentramento nazisti in Polonia, ma torna a Sarajevo e agli ebrei di quella città, eroi tra i tanti di cui mi manca il nome, rimasti a pagare il loro debito con la Storia.

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