
Che il fascismo non fosse affatto rispettoso delle libertà degli italiani è un fatto assai noto. Meno noto è che la pratica delle intercettazioni telefoniche fosse in uso già prima del suo avvento. Nel gennaio 1921, quando dal congresso socialista a Livorno nacque il partito comunista, i colloqui di alcune personalità politiche del partito – per ordine del ministero dell’interno al cui vertice si trovava il ‘liberale’ Giovanni Giolitti – furono intercettati, trascritti e trasmessi al ministero. Giolitti, per la quinta volta presidente del consiglio dal giugno 1920 al luglio 1921 aveva tenuto per se anche il ministero dell’interno in un periodo molto difficile, caratterizzato da disordini e da una grave crisi sociale ed economica. La linea generale adottata dallo statista piemontese era stata quella della cautela, rinunciando ad esempio a gesti eclatanti come sgomberare con l’esercito le fabbriche occupate, ma non rinunciando invece in alcun modo alla sorveglianza anche attraverso le intercettazioni.
Nato nel 1872, Menotti Serrati era una nota figura di spicco del partito socialista che aveva svolto attività politica anche all’estero tra i lavoratori italiani emigrati. Dopo l’abbandono da parte di Benito Mussolini nel 1914 del quotidiano socialista «Avanti!», ne aveva assunto la direzione diventando il portavoce della condanna della guerra e di altre battaglie politiche a favore dei lavoratori. Soprattutto Menotti, all’epoca del congresso di Livorno, era anche l’esponente più in vista della cosiddetta componente ‘massimalista’ del partito, ovvero la più attiva e intransigente, dalla quale sarebbe nato in seguito il partito comunista. Ovvio quindi che il ministero dell’interno fosse molto interessato a conoscere i suoi contatti, i suoi spostamenti e il contenuto delle sue conversazioni con uomini politici o sindacalisti, principalmente cioè gli altri ‘sovversivi’ che turbavano l’ordine pubblico. Ove non si erano dimostrati sufficienti i rapporti degli informatori o i pedinamenti, le intercettazioni delle conversazioni telefoniche potevano colmare così numerose lacune.
Giolitti, nei suoi precedenti governi prima della Grande Guerra, si era appoggiato ai prefetti tanto che lo storico Gaetano Salvemini aveva parlato appunto di «prefettocrazia»: attraverso questi alti funzionari del ministero dell’interno, Giolitti controllava praticamente tutto quanto accadeva nelle province e, di volta in volta, interveniva, anche determinando le candidature alle elezioni e di conseguenza i risultati delle stesse in modo tale che vincitori ne risultassero soprattutto quelli che avrebbero poi appoggiato il suo governo. Il sistema andò in crisi quando nacquero i partiti di massa e la legge elettorale ammise al voto un numero sempre maggiore di cittadini. Anche il ruolo dei prefetti andò poi in crisi come il modello giolittiano, ma per organizzare appunto a Pisa un centro di ascolto ‘riservato’ (per non dire segreto) delle conversazioni di Menotti Serrati ed altri durante il congresso socialista a Livorno la regia prefettura funzionò invece ancora benissimo. Dai documenti conservati negli archivi è così possibile ricostruire non solo la vicenda della nascita in sé, quanto i diversi ruoli dei protagonisti.
Il fascismo non divenne regime subito dopo la marcia su Roma, ma gradatamente negli anni successivi riordinando l’organizzazione dello Stato a cominciare dalla sorveglianza dei cittadini e non solo di coloro i quali nutrivano scarse simpatie più o meno manifeste. Mussolini, attraverso l’ascolto delle conversazioni divenuto ormai fondamentale e sistematico, era interessato anche a quanto dicevano i suoi stessi gerarchi e dalle raccolte delle intercettazioni (almeno di quelle che sono salvate dalla distruzione accidentale della guerra o da altre meno accidentali) si ricava un quadro a volte desolante: tresche sentimentali, maneggi economici e finanziari, antiche rivalità mai sopite tra generali o ammiragli, ma anche episodi semi sconosciuti come un’epidemia di tifo a Roma nel 1935 (scoperta a sua volta attraverso un’altra intercettazione) e nascosta ovviamente alla stampa. Dai tempi di Giolitti molta acqua insomma era passata sotto i ponti sul Tevere, ma anche sotto quelli sull’Arno a Pisa.