
La Cina è vicina. O, almeno, sta galoppando velocemente verso traguardi economici che tra un paio d’anni potrebbero farle sopravanzare gli Stati Uniti, facendola diventare la prima economia del pianeta. Il sorpasso dovrebbe avvenire nel 2028 secondo le previsioni del Center for Business Research. Il motivo? Presto spiegato: la pandemia da coronavirus ha prodotto sconvolgimenti epocali negli assetti produttivi e distributivi di tutto il pianeta, facendo figli e figliastri. Paradossalmente, il coronavirus made in China ha finito col favorire Pechino che ha reagito meglio di tutti gli altri a una sfida distruttiva che sta lasciando rovine fumanti nel resto dei continenti.
Le analisi degli specialisti sottolineano che Pechino è stata prontissima ad attuare cordoni sanitari, lockdown ed altre misure draconiane che hanno stoppato il dilagare dei contagi. Mosse senz’altro efficaci, non solo per salvaguardare la salute dei propri cittadini (la Cina ha gli stessi morti dell’Italia, poco più di 70 mila con una popolazione che è 25 volte superiore), ma anche per rilanciare il tessuto economico messo in crisi dalla diffusione del contagio. E qua bisognerebbe fare un’approfondita riflessione per andare a vedere dove i cinesi ci hanno azzeccato ed eventualmente copiare le loro politiche di risposta alla pandemia.
Un fatto è sicuro, quest’anno l’economia del colosso asiatico continuerà a crescere addirittura tra l’1,7 e il 2 %, mentre i prodotti interni lordi di tutte le altre nazioni del mondo diminuiranno mediamente del 5 %, un fenomeno che gli economisti conoscono bene e che si chiama recessione. Un fenomeno che taglia le gambe alle strategie di crescita di qualsiasi nazione e che lascia tutti i settori produttivi in stato confusionale, privi di certezze e senza punti di riferimento affidabili a cui aggrapparsi. Invece la Cina ha scavalcato tutti e ha fatto della crisi pandemica un’opportunità di sviluppo per accendere la freccia del sorpasso.
Certo, il capitalismo di stato cinese, un guazzabuglio in cui si mischiano command economy, spinte marginali di libero mercato, dirigismo comunista dei tempi di Deng Xiao Ping e strategie finanziarie a metà tra la City londinese e lo zecchinetto, può lasciare perplessi in molti, ma i risultati sono sotto gli occhi di tutti. I cinesi non scherzano e mettono al primo posto il portafogli. Sanno come muoversi e come invogliare gli investitori esteri, anche in periodi di crisi. Per fare un esempio, quest’anno la presenza nei capitali americani sul mercato cinese è aumentata addirittura del 6%, grazie anche a una domanda interna che tiene botta.
Pechino ha saputo aprire proprio l’ombrello della domanda interna, per parare i colpi negativi che arrivavano dalla decrescita internazionale. I trend resi pubblici alcuni giorni fa sul commercio di beni e servizi, sull’esplosione del turismo interno (620 milioni di viaggiatori) e sulla propensione al consumo dimostrano che il colosso asiatico cammina per conto suo e ha staccato irrimediabilmente in quanto a crescita economica tutti gli altri paesi industrializzati. L’esempio più probante viene dalla cosiddetta “Golden week”, cioè la settimana d’oro nella quale è stata festeggiata la fondazione della Repubblica Popolare Cinese.
Ebbene, la propensione al consumo in questo periodo ha quasi raggiunto il livello pre-crisi, dimostrando come Pechino abbia saputo cogliere l’importanza di rafforzare il rimbalzo economico del suo PIL. Sicuramente, alcune note negative devono essere sottolineate per quanto riguarda la distribuzione geografica della risposta economica alla pandemia. Sostanzialmente, le aree urbane meglio attrezzate e dotate dei presidi necessari e dei servizi utili a far funzionare l’oliata macchina produttiva e distributiva hanno funzionato al meglio. Qualche difficoltà, invece, si è avuta nelle aree rurali e in quelle extraurbane, dove il reddito individuale dovrebbe essere calato di circa il 7%.
Naturalmente, la risposta dell’economia cinese è stata programmata e strategicamente voluta dal Partito-Stato. In tempi non sospetti si è pensato di puntare gli investimenti disponibili ( la Cina ha grandi risorse di liquidità finanziaria) lungo due direttrici: i grandi progetti infrastrutturali e il settore dell’energia. Esaminiamoli con attenzione perché possono essere un modello da seguire per altre mature democrazie industriali, come la nostra. Già da tempo i vertici del potere cinese si afferma continuamente che una moderna nazione industriale deve avere delle infrastrutture all’altezza che ne costituiscono la vera spina dorsale.
Le infrastrutture danno lavoro, cementano l’unità del Paese, abbassano i costi fissi della produzione e rendono molto più facile investire anche in aree geografiche lontanissime tra di loro, per questo nessuno si sogna in un paese come la Cina di dare vita a movimenti di opinione del tipo Nimby (acronimo di not in my backyard, cioè non nel mio cortile). Un termine che contraddistingue coloro i quali sono contrari alla posa di ogni singolo mattone per infrastrutture che “altererebbero l’ecologia”. C’è poi il grande capitolo relativo al progetto per sostituire i combustibili fossili, che tanto inquinamento hanno creato sopra i cieli cinesi. Il governo ha puntato sulla realizzazione massiccia di centrali idroelettriche e, soprattutto, di impianti eolici, senza trascurare anche l’installazione del fotovoltaico.
Certo, ci vorrà tempo, ma Pechino ne ha a sufficienza, considerato che ormai gli anni giocano al suo favore e che ha preso una rincorsa verso la crescita continua che difficilmente sarà arrestabile. Virus o non virus.