Il Natale del ’44 a Wietzendorf
Il Natale del ’44 a Wietzendorf

L’otto settembre 1943, quando la radio annunciò l’armistizio tra l’Italia e gli Alleati… oltre seicentomila soldati, marinai o avieri italiani furono avviati in campi di concentramento tedeschi… ‘internati militari’ e quindi in balia delle forze armate del Reich…
Wietzendorf, Bassa Sassonia, campo di concentramento per prigionieri italiani dove finiscono prigionieri, tra le migliaia di altri, l’attore Gianrico Tedeschi (recentemente scomparso a cent’anni); Alessandro Natta, futuro segretario del Pci, lo scrittore Giovanni Guareschi, lo storico del Risorgimento Vittorio Emanuele Giuntella, il papà del nostro caro amico scomparso Paolo, scrittore e giornalista.
Lì, Natale 1944, la strana storia di un eccezionale presepe.

La fine del Regio esercito e la prigionia

L’otto settembre 1943, quando la radio annunciò l’armistizio tra l’Italia e gli Alleati, la notizia fu accolta con giubilo, ma dopo poche ore i militari italiani, dislocati non solo in Italia ma anche in Francia, nei Balcani e in Grecia, si trovarono a fronteggiare una durissima e rabbiosa reazione tedesca. Chi si oppose alla consegna delle armi e alla cattura (ad esempio a Cefalonia o in altre isole greche in Egeo) subì attacchi violentissimi alla fine dei quali seguirono massacri di prigionieri. In breve oltre seicentomila soldati, marinai o avieri italiani furono avviati in campi di concentramento tedeschi. Per volontà dello stesso Hitler non furono dichiarati ‘prigionieri di guerra’, in quanto avrebbero goduto delle garanzie internazionali e della protezione della Croce Rossa, ma furono definiti ‘internati militari’ e quindi in balia delle forze armate del Reich. Fu posta loro un’alternativa: o tornare a combattere con i tedeschi – aderendo quindi alla repubblica di Salò guidata da Mussolini – o restare rinchiusi in campo di concentramento con tutte le conseguenze.

Sparsi tra Germania ed Europa orientale e schiavizzati

La stragrande maggioranza non accettò questa imposizione. Nonostante propaganda, facili promesse e altre forme di pressione (prima fra tutte la fame), la percentuale di coloro che accettarono l’adesione alla repubblica di Salò – anche solo per tornare in Italia – non superò il venticinque per cento per gli ufficiali e il ventidue per il resto dei militari. Cominciò allora la ‘schiavizzazione’: i prigionieri furono trasformati in lavoratori e rimanendo comunque privi di libertà, non ottenendo quindi un significativo cambiamento nelle condizioni generali, furono impiegati in fabbriche industriali o fattorie agricole o semplicemente per sgomberare le macerie dopo i bombardamenti per nove o dieci ora al giorno e ricevendo un vitto che non era molto diverso da quello dei campi. Progressivamente la pressione aumentò ancora e, per ridurre alla ragione coloro i quali rifiutavano in ogni caso il lavoro (come fece grossomodo la maggior parte degli ufficiali), le condizioni peggiorarono ulteriormente: gli irriducibili furono raggruppati in campi particolari, ovvero dove le condizioni erano ancora più dure.

Il campo di Wietzendorf

Durante la Prima Guerra mondiale nei pressi di Wietzendorf‘, in Bassa Sassonia, era già stato costruito un primo campo di concentramento proprio per prigionieri italiani catturati dai tedeschi dopo Caporetto e a soffrirvi la fame ci capitò tra gli altri Carlo Emilio Gadda. Nel’estate del 1941, dopo l’attacco alla Russia, il campo fu ripristinato e dopo che almeno diecimila russi vi avevano perso la vita per fame, inedia o altri maltrattamenti, nell’autunno del 1943 toccò agli italiani. Tra i tanti campi che ospitarono italiani, probabilmente Wietzendorf fu un microcosmo che raccolse quelli che ebbero dopo la prigionia i destini più diversi: solo per nominarne alcuni basta ricordare l’attore Gianrico Tedeschi (recentemente scomparso dopo aver compiuto cent’anni); Alessandro Natta, che sarebbe diventato segretario del Partito comunista; lo scrittore Giovanni Guareschi, che scrisse pagine di ricordi tutt’altro che banali sulla prigionia; il filosofo esistenzialista Enzo Paci; Giuseppe Lazzati, futuro rettore della Cattolica di Milano: lo storico del Risorgimento Vittorio Emanuele Giuntella e il pittore e caricaturista Giuseppe Novello che non solo era scampato alla ritirata di Russia, ma vent’anni prima aveva combattuto anche nella Prima guerra mondiale.

Tra le baracche il presepe

Avvicinandosi il Natale un ufficiale internato, raccogliendo pezzi di legno e scampoli di stoffa dalle provenienze più disparate, realizzò un presepe (oggi conservato a Milano nella basilica di Sant’Ambrogio) attorno al quale moltissimi si raccolsero, oppressi dalla fame e tormentati dalla nostalgia, quanto irremovibili nella volontà di non tornare più a combattere per il fascismo e nonostante il prezzo che stessero pagando per la loro scelta fosse decisamente alto. Il Natale tradizionale, nei limiti del possibile, fu dunque solennizzato nel modo più classico, ma non mancarono episodi non convenzionali: per contrastare la fame, con una straordinaria auto ironia, alcuni si dedicarono alla compilazione di raffinate ricette di cucina pur tra i commenti basiti e un po’ scandalizzati dei compagni di prigionia. Memorabile soprattutto fu il comportamento di un capitano d’artiglieria, che prima della guerra era docente di analisi matematica ed autore di una monumentale opera sul calcolo differenziale: assorto e appartato – e forse anche un po’ infastidito per la confusione che comunque turbava la tranquillità dei suoi calcoli – non abbandonò mai un libro con le tavole dei logaritmi.

Tags: Natale
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