L’Inghilterra triste che si inabissa nel Natale più buio della sua storia recente merita forse, più che un articolo, i versi di un poeta mio conterraneo e giramondo come me: “Sei il vuoto che vanifica il presagio, /il tarlo che corrode la speranza, /la vela che è fantasma nel naufragio, /il niente che col niente fa alleanza”. Escludo che Antonio Prete, leccese contemporaneo, avesse in mente la Brexit quando ha messo su pagina questa sua ode disperata “Al tu dell’assenza”. Ma le sue parole mi sono immediatamente risuonate nella memoria dinanzi alle immagini spettrali di Londra svuotata dal COVID, ai riflessi delle luci di Natale sui selciati bagnati e deserti della magnifica “città-mondo”, ai dodici chilometri di autotreni in coda verso Calais da una parte e Dover dall’altra, carichi di merci forse destinate ad arrivare troppo tardi mentre già sull’isola i consumatori svuotano gli scaffali di ogni bene e i supermarket accumulano scorte…
Su questo panorama livido, prodotto dal sovrapporsi della pandemia all’annunciata catastrofe della Brexit, la zazzera bionda e spettinata del più improbabile dei primi ministri sventola come una bandiera bianca.
Angosciati, gli inglesi si chiedono se dalla settimana prossima, dopo il fatidico 31 dicembre, troveranno più sugli scaffali dei Food Departments la mozzarella napoletana, il sugo di pomodoro pugliese, il salame milanese, il prosecco veneto che fanno ormai parte del loro menù abituale. E naturalmente anche würstel tedeschi e Claret francese e alici portoghesi, per non parlare di quella meraviglia di frutta e verdura del sud continentale impossibile anche solo da immaginare nel clima, diciamo, poco soleggiato dell’isola, quando non piove… E se Natale, non c’è dubbio, è stato sequestrato dal COVID, di chi è la colpa invece se una confusione più fitta della nebbia è calata sulla Manica, e stavolta a rimanere isolato non è – come da celebre battuta – il continente ma il Regno Unito?
Il tetro spettacolo dell’Inghilterra in questi giorni, che una volta furono di festa, sembra predisposto dal destino per togliere ai sudditi ogni illusione di “magnifiche sorti e progressive“ in conseguenza dell’abbandono dell’Unione Europea. Con la crudeltà inconsapevole della natura, il COVID mutando nella “variante inglese” ha reso plastica la solitudine del Regno. Se con la Brexit gli inglesi hanno tirato su il ponte levatoio, gli europei per contenere il virus, cresciuto a dismisura a Londra, sono stati costretti a chiudere addirittura i cieli. Ma non solo loro. Cinquanta diversi Paesi del pianeta hanno tagliato tutti i collegamenti con l’isola, trasformandola tutt’intera in lazzaretto. E perfino scozzesi e gallesi hanno imposto la quarantena ai compatrioti che arrivano dalle contee inglesi.
“A che ci serve un esercito, se la nostra Marina domina i mari?“, proclamava Winston Churchill giusto alla vigilia della Prima Guerra Mondiale, per essere tragicamente smentito dai seicentomila fanti britannici uccisi sul continente nelle trincee della Somme. L’errore dei suoi attuali successori a Downing Street è per fortuna privo di lutti bellici ma non meno disastroso: basta la stupidità di un virus a dimostrare che l’Europa non è, o almeno non è soltanto, la casta degli eurocrati a Bruxelles -come vuole la caricatura dei media pro-Brexit- ma significa solidarietà, vicinanza, soccorso reciproco, oltra a una decente pizza napoletana.
Non più tardi di quindici giorni fa il ministro della Salute Hancock si vantava che l’autorità britannica per i medicinali avesse autorizzato per prima in Europa l’uso del vaccino, già in via di somministrazione nel Regno: tutto merito -sosteneva- del distacco dall’Unione. Nel frattempo, il vaccino è arrivato anche da noi ma intanto la chiusura dei porti francesi per effetto congiunto del virus “mutante” e dello stallo del negoziato sulla Brexit ha fatto sparire l’insalata dalle tavole inglesi, e fosse solo la penuria di carciofi e cavoletti di Bruxelles così cari ai cuochi londinesi. Con l’occhio al no-deal, cioè l’uscita dall’UE senza accordo che Johnson continua a dichiarare l’esito più probabile, le fabbriche di auto giapponesi sull’isola hanno annunciato di dimezzare la produzione. I licenziamenti seguiranno. E per tirare su l’umore della famosa middle-class già parecchio depressa (nonostante la luminosa prospettiva della Brexit …), niente di meglio di una bella patrimoniale: pare che il cancelliere dello Scacchiere Rishi Sunak accarezzi l’ipotesi della tassa per colmare la spaventosa voragine prodotta anche nel bilancio britannico dai “ristori” alle vittime economiche della pandemia. Peccato che la Gran Bretagna non possa più contare sui ricchi aiuti garantiti al resto degli europei dal piano Next Generation EU.
Nel lockdown totale in cui è di nuovo precipitata, Londra comincia forse a comprendere che non è solo al Natale che deve rinunciare. E che se il premier Johnson assicura che per Pasqua tutto si aggiusterà, allora c’è davvero da preoccuparsi. Perché è lo stesso Johnson che appena una settimana fa giurava che “vietare Natale sarebbe disumano”, salvo cambiare idea due giorni dopo quando qualcuno lo ha avvertito che il contagio del nuovo virus dilagava. E che se non chiudeva in casa, come ha fatto, diciotto milioni di inglesi nel sud-est dell’isola, correva il rischio che fosse il suo stesso partito a rinchiudere lui da qualche parte… Non che il ripensamento, come al solito tardivo, abbia fatto granché per risollevare il suo prestigio e la sua capacità di leadership agli occhi degli elettori, e pure di parecchi eletti del partito conservatore. La sera dell’annuncio improvviso del lockdown di lì a poche ore, tutte le stazioni di Londra si sono riempite di fuggiaschi come la Centrale di Milano la notte del 7 marzo, ma dieci volte tanto. Anche qui, immagine eloquente di un governo costantemente in affanno, sempre a inseguire gli eventi e mai ad anticiparli.
E’ il paradigma della Brexit. Una volta azzeccato il colpo di dadi, perché l’esito del referendum non fu altro che questo, i bellicosi Brexiters guidati dal baldanzoso Johnson non hanno più saputo che pesci prendere, perfino in senso letterale: uno dei punti d’incaglio del negoziato che morirà la notte del 31 riguarda proprio i diritti di pesca nelle acque del Mare del Nord, su cui i britannici litigano con i francesi e gli olandesi. L’eroico Boris brandisce il merluzzo come uno stendardo della ritrovata sovranità: non era forse “Britannia rules the waves“ il motto dell’Impero? Solo che il settore oggetto di cotanta battaglia oggi vale lo 0,1 per cento dell’interscambio UK-UE , mentre un’uscita di Londra senza accordo minaccia di costare all’una e all’altra parte decine di miliardi di sterline. E ai britannici, per aggiungere al danno la beffa, anche una penuria alimentare da razionamento bellico.
Da antico innamorato dell’Inghilterra, scrivo queste note col cuore pesante. Quello che succede a Londra in queste ore è un esempio da manuale delle catastrofi che può provocare una classe dirigente impreparata e improvvisata. Il frutto più avvelenato del populismo (Trump docet…). Il Paese più globalizzato del mondo, la capitale più cosmopolita del pianeta si trovano oggi isolati come mai nella loro storia post-bellica. I ciarlatani della Brexit vendevano l’uscita dall’Unione come una condizione per rendere il Regno ancora più “globale”, finalmente svincolato dai lacci e lacciuoli dei regolamenti europei: insomma, una via di mezzo tra Singapore e Tortuga, super-potenza finanziaria e paradiso fiscale, un Eden per super-ricchi, una terra promessa per talenti e pirati. La pandemia, con il suo atroce carico di lutti e sventure, ha smascherato il bluff: i talenti fuggono, e al momento solo i camionisti fanno la fila per entrare in Gran Bretagna, ma solo perché costretti. Più che all’Eldorado, la Londra spenta, confusa e sfiancata di questi giorni fa pensare a un altro celebre luogo letterario la fortezza Bastiani, in perenne attesa dell’arrivo dei tartari, ma stavolta per salvarla. Purtroppo, all’orizzonte non si vede nessuno.