
A firmare l’accordo, ieri a Ginevra, i rappresentanti dei due fronti avversari, l’Esercito libico del Governo di Accordo Nazionale di Tripoli (Gna) e l’Autoproclamato Esercito nazionale libico del Comando generale di Bengasi (Lna), di fronte al ‘notaio Unsmil’, la Missione di Sostegno delle Nazioni Unite. Principi generali e belle parole, come l’integrità della Libia, la lotta al terrorismo, non essere ostaggi di forze esterne e il rispetto dei diritti umani. Sperando non si riveli l’ennesimo elenco di buone intenzioni seguito da pessimi comportamenti.
Cessate il fuoco, che deve essere «immediato e con effetto a partire dalla firma dell’accordo». A seguire, entro i tre mesi successivi, il ritorno alle loro postazioni di tutte le unità di militari e l’uscita dal Paese di tutti i miliziani e combattenti stranieri. Anche le forze turche ufficialmente incaricate di addestrare i libici dovranno sospendere le operazioni e lasciare la Libia. E qui la partita politica si fa dura, se non addirittura improbabile. Garanti e censori per eventuali violazioni (come, fischio di fallo o qualcosa di più?) una «forza armata istituita in una sala operativa dal formato 5+5 [?] finanziata da tutte le parti in causa».
Solo dopo, arzigogolo a seguire, «sarà possibile procedere a identificare tutte le entità armate presenti nel Paese in modo da farle confluire in un quadro istituzionale unico». Ed è subito facile immaginare gli Jihadisti ex Isis arruolati dalla Turchia che vanno a registrarsi. «Facile immaginare che questo sarà un punto estremamente delicato, in cui si tratta prima di smantellare e poi ricollocare persone, mezzi e unità operative oggi frammentate e antagoniste», ammettono da subito le stesse agenzie di stampa che ne scrivono.
Unsmil sarà incaricata di agevolare il percorso e trovare soluzioni ai casi più difficili. Santa Stephanie T. Williams, vice Rappresentante Speciale delle Nazioni Unite in Libia, con il problemino di essere statunitense. La Russia coltiva più di una perplessità sulla guida della Williams, e Lavrov ha voluto incontrarla a Mosca qualche giorno fa, in vista degli incontri di Tunisi del 9 novembre, in cui si dovrebbero decidere i nuovi assetti politici della Libia, con un premier alla guida del governo e un consiglio presidenziale a tre membri (un presidente e due vice).
Stephanie Williams avrebbe ottenuto l’appoggio di Mosca – si dice all’Onu – rassicurando sia sulle ingerenze esterne di Turchia e Usa sia su quelle interne (specie la Fratellanza Musulmana, che il Cremlino non gradisce molto). Ma sarà decisivo anche per la Libia aspettare a vedere cosa accade negli Stati Uniti col voto del 3 novembre, conteggi e contestazioni trumpiane già messe nel conto.
L’Italia esteri c’è, assicurano fonti diplomatiche, ed di dice soddisfatta di un accordo «che è stato possibile anche grazie alle pressioni che Roma ha esercitato su Washington». Ognuno i suoi meriti li rivendica come vuole. «Adesso si tratta di entrare nella cabina di regia che il 9 novembre contribuirà a formare un nuovo assetto politico per la Libia». «È un accordo in cui ciascuno ha qualcosa da guadagnare – commentano fonti di Palazzo Chigi – ma soprattutto, nel caso in cui non vada in porto, hanno tutti molto da perdere».