
La tregua nel Caucaso, fortemente voluta da Mosca, si è dimostrata più fragile del previsto. In effetti, i timori degli osservatori internazionali, manifestati fin dal primo momento, si sono concretizzati nell’arco di un paio di giorni. E adesso i combattimenti tra Armenia e Azerbaigian, che si svolgono in quella sorta di campo neutro che è ormai diventato il Nagorno Karabakh, fanno quotidianamente morti e feriti in quantità. L’altro ieri, un missile azero ha colpito la città di Ganja.
Dal canto suo, il governo di Baku ha dichiarato che gli armeni prendono di mira la città di confine azere, usando come basi proprio le installazioni esistenti nel Nagorno Karabakh, Repubblica formalmente appartenente all’Azerbaigian ma abitata e governata da armeni. A sua volta, il primo ministro di Erevan, ha ammesso che nell’ultima settimana il suo paese ha subito pesanti perdite, infliggendone però altrettante ai secolari avversari.
Gli armeni sono cristiani, mentre in Azerbaigian si professa la religione musulmana. Per la verità, finora, i russi sono stati in grado di tenere la situazione sotto controllo evitando il cosiddetto “scontro tra civiltà”. Anche se, proprio alcune aree del Caucaso, ad esempio il Daghestan, hanno rappresentato il serbatoio ideale per la crescita e dell’affermazione di gruppi paramilitari di fondamentalisti che sono riusciti ad affermarsi pericolosamente nelle aree di crisi dove è stato consentito all’Isis di potersi esprimere.
La scorsa settimana il ministro degli esteri russo, Sergej Lavrov, si era impegnato affannosamente su mandato di Putin a creare le condizioni per un cessate il fuoco, che era stato raggiunto abbastanza velocemente. Anche con l’assistenza di Erdogan, presidente della Turchia, nazione interessata a sviluppare una politica di potenza che mira a collegare la sua sfera d’influenza nel Mediterraneo a quella che porta all’Asia centrale.
L’interesse di Mosca sta nel fatto che i russi vogliono tenere tranquille sotto controllo tutte le loro ex repubbliche, quelle per intenderci che componevano l’unione sovietica. E proprio quando si va a vedere da vicino le diverse situazioni diplomatiche strategiche, si nota che, gratta gratta, sotto la vernice di un apparente stato di equilibrio, compaiono vecchie ammaccature, talmente radicate che nemmeno lo stucco abbondantemente passato da oltre settant’anni di comunismo ha saputo mascherare.
Tra le altre cose, l’Armenia è una fedele alleata di Putin, mentre l’Azerbaigian, forte produttore di petrolio alza la bandiera della mezzaluna. È un paese islamico, con cui bisogna fare i conti non solo a livello locale, ma anche a livello più elevata quando, di fronte a possibili conflitti, scatta la solidarietà islamica internazionale. Bisogna anche sottolineare che le linee di tendenza delle attuali relazioni internazionali sono diverse rispetto a qualche decennio fa.
Oggi le crisi regionali tendono a saldarsi tra di loro e a formare delle vere e proprie macro aree di crisi, che rappresentano delle sfide insormontabili quando crescono troppo in volume e complessità. Naturalmente, memore del quasi irrisolvibile problema ceceno, Mosca vuole spegnere sul nascere qualsiasi conflitto che si porti appresso determinanti componenti religiose. La questione delle nazionalità, in Russia, e da sempre molto sentita, e lo stesso Stalin se ne e se ne occupò, ma a modo suo. E senza successo reale.