
In Arizona il muro corre sulle terre sacre. Queste zolle aride sono terreno fertile di una tradizione nativa che si ostina a non essere calpestata. A schiacciarla quotidianamente sono i colossali tir carichi di materiali metallici che solcano la Statale 85, un nastro d’asfalto srotolato tra i possenti cactus dell’Organ Pipe National Monument. Questo è l’unico luogo in tutti gli Stati Uniti dove crescano i cactus uguali a quelli dei cartoni animati. T’aspetteresti di vedere sfrecciare Willy il Coyote che insegue Beep Beep.
E invece per secoli qui hanno abitato i Tohono O’odham, la “gente del deserto”. Cioè il deserto di Sonora, che incurante dei confini coloniali tra Messico e Stati Uniti si accomoda sui due lati della frontiera.
Adesso il muro voluto dall’attuale presidente ha spezzato queste comunità di confine.
Non solo, ma la sua costruzione sta erodendo le risorse naturali dei nativi. A partire dall’acqua.
Come ci racconta Lorraine Eiler. I suoi nonni le parlavano del grande stagno a Quitobaquito Springs, piccolo villaggio noto per le sue fonti d’acqua a ridosso di dove adesso sorge il muro voluto dall’amministrazione Trump. Lorraine ha 83 anni, capelli striati di bianco e una camicia rosso vermiglio.
La incontriamo a Ajo, il comune più vicino alla frontiera col Messico. Vicino per modo di dire, quasi 60 chilometri. Dice che il muro non servirà a nulla. “In passato scavavano tunnel, lo faranno ancora”. È preoccupata questa anziana leader tribale dei Hia-Ced O’odham, comunità che fa parte della famiglia dei Tohono O’odhan, trentamila in tutto. La sua gente è in rivolta. Insieme ad altre comunità di nativi hanno bloccato la Statale 85. Ci sono stati incidenti con i guardia-parco. Tafferugli veri e propri, al punto che la strada d’accesso alle fonti di Quitobaquito è stata bloccata.
Anche Victor Garcia partecipa alle proteste. Incontriamo questo ragazzo dal fisico gracile in un caravanserraglio di mercanzie e oggetti d’arte locale.: il nel Tri-Nation Market .“Tre-nazioni” perché qui idealmente s’incrociano USA, Messico e la “Nazione dei Tohono O’odham”, una delle 574 tribù di nativi riconosciute dal governo federale qui negli Stati Uniti.
Le mura esterne sono ricoperte di graffiti che inneggiano alla libertà di spirito e alla lotta per la difesa delle proprie terre. “Continueremo a dare battaglia con ogni mezzo”, afferma con un filo di voce Victor.
Il rancore contro il muro cresce. Dovrebbe servire a fermare gli immigrati illegali, secondo il presidente degli Stati Uniti. Invece colpisce gli americani. Cioè queste tribù native. Le loro terre ancestrali sono state sventrate dai lavori di costruzione della barriera. Interi ecosistemi distrutti, per far spazio ai pannelli d’acciaio. Li vediamo infilandoci in una strada laterale all’altezza di Lukeville, ormai a ridosso del Messico. Il camper arranca lento su uno sterrato, quasi a zig-zag tra i Titani verdi del “Sonora desert”.
La forma dei cactus è quella di una canna per organo, e così il nome – e pure il nome di questo Parco che è “un monumento nazionale”. Qui la natura suona melodie inedite, i raggi del sole fanno riecheggiare un Bach di luce tra queste piante dinoccolate. Sembrano silouhette danzanti. A una ventina di chilometri dal confine scorgiamo due cactus avvinghiati come una coppia di ballerini in un tango appassionato. Nel pomeriggio le ombre si allungano. Sulla destra della carreggiata svettano guglie color cioccolato e pinnacoli di caramello. Che al tramonto sembrano la crosta di una crème brûlée
Ripartiamo, lasciamo il muro, i suoi lavori di costruzione e le proteste dei nativi. Il confine col Messico resta alle nostre spalle, ora ci dirigiamo verso Tucson. Ma a parecchi chilometri di distanza ci sono ancora i check-point sulla Statale. Richiamano, anche se diversi, quelli visti un sacco di volte ad altre latitudini in altri anni, durante la guerra in Bosnia o in Centrafrica. L’agente Lunes del Border Patrol fa cenno di fermarsi. No, non abbiamo armi né marjuana a bordo, rispondiamo diligenti. No, non abbiamo attraversato il confine col Messico. Si, potete controllare. Controllano i passaporti. Non si fidano. Ci fanno scendere, il Ford che ospita il team di #RadioCamper2020 viene passato ai raggi X, in un macchinario simile agli spazzoloni colorati di un autolavaggio. Scherziamo in spagnolo con l’agente Lugo, per stemperare un l’attesa e la tensione. La maggior parte di questi agenti sono ispanici. Tocca a loro arrestare chi sfrutta i poveri in fuga dal Centro-America. Ma tocca a loro anche fermare chi arriva qui in America perché scappa dalla violenza nel proprio paese e vorrebbe cercare un’altra vita da questa parte della frontiera. A ridosso del muro avevamo visto un cartello che recita: “In quest’area si verificano traffico di esseri umani e immigrazione illegale”. Per un attimo, ma solo per un attimo, è possibile mettersi nei panni di chi non ha le carte in regola. E percepire la stessa tensione: una sgradevole sensazione di non avere le carte in regola. Via, si riparte. On the road.
Il Texas s’infila di sbieco dal finestrino del lato passeggero. Gli ultimi raggi di sole illuminano da Ovest il grande cartellone di lamiera lungo la highway. Uno Stato che conta gli abitanti di mezza Italia o 3 volte la Svizzera. Ci fermiamo nel suo angolo settentrionale, quasi un francobollo appiccicato tra Oklahoma, Kansas e Colorado.
Tappa al Roosters, ristorante messicano sulla “Mother Road”, la Route 66 di Steinbeck e di tutti quelli che hanno celebrato questa strada prima che inventassero le autostrade. Vega è il primo villaggio per chi arriva da West. Mille anime in una contea che ne ha in tutto il doppio. Questa è terra conservatrice e repubblicana, rossa. Come il colore del partito. Ma fino a quando? Altrove questo Stato sta virando al “purple”, sfumatura viola per la sovrapposizione del blu dei democratici. Ma da queste parti è ancora carminio puro. A guidare i repubblicani qui è Cheri Webb, professoressa di spagnolo che si presenta con una scatola di biscotti da regalareagli affamati di “RadioCamper” dopo la lunga galoppata su quattro ruote in provenienza dal New Mexico. Dentro il “Roosters, un pc portatile diventa schermo d’occasione per guardare il dibattito tra i candidati alla vice-presidenza.
Mike, che poi sarebbe Miguel, è il proprietario del locale. È nato a Città del Messico ma vive qui in Texas da 28 anni. Nel 2016 ha votato per l’attuale presidente. Tra meno di un mese intende garantirgli ancora la sua preferenza. Intanto conduce il sondaggio elettorale più originale tra quelli visti finora. Accanto alla cassa tiene due contenitori, con i nomi di entrambi i candidati alla Casa Bianca. Servono per le mance, tradizione consolidata in tutta l’America. “Sto qui alla cassa tutta la giornata e vedo con i miei occhi dove finisce la stragrande maggioranza delle mance: nel contenitore dell’attuale inquilino della Casa Bianca”. Non servono algoritmi complessi. All’ora di chiusura, si contano monetine e biglietti verdi. Ma basta un’occhiata ai contenitori per capire chi prenda pochi penny e qualche mezzo dollaro e chi invece riceva sostegno.
Cheri Webb, golfino verde-oliva e collana girocollo, si presenta al “Roosters” con anche le sue due sorelle, Melanie e Deborah. Sono tutte oltre la cinquantina. Garbate e cordiali. Ma inamovibili sulla difesa a oltranza di chi rappresenta l’America, qui e nel mondo. “Se solo potesse tacere…”, dice Cheri dell’attuale presidente. Un disagio che non scalfisce l’identità “rossa”, repubblicana, con quel mix di tradizione e patriottismo orgogliosamente esibito a ogni pie’ sospinto. “Lui rappresenta i nostri valori, e lo voteremo”.
Vega è il microcosmo di un’America a tinte pastello, profonda e rurale, che da qui vediamo estendersi a perdita d’occhio in un orizzonte solcato dai profili vertiginosi delle pale eoliche.
I raggi accendono di sfumature color rame la prateria, appena dietro il parcheggio del ristorante. La prima persona incontrata li era stata la signora Melissa, operatrice amministrativa in uno studio di ginecologia nella vicina Amarillo. Una che l’Obamacare lo vede applicato nella quotidianità. A lei non piace. Ma nemmeno il modello di assistenza dell’altro lato politico. L’importante però, dice scherzando, è non parlarne con suo marito. “È un democratico”, precisa Melissa prima di un risata roboante. Ma dentro, in un tavolo nell’altra saletta, c’è proprio lui. Paul, il marito democratico. Sta al gioco. Afferma di essere uno dei pochi da queste parti a non votare per il presidente tuttora in carica. Intanto Mike, il proprietario, osserva un’altra “scheda elettorale” come le chiama lui. Un cliente ha infilato una mancia nell’urna delle mance col nome del presidente in carica. Tutto come previsto.
E tutti i video di RadioCamper con le voci e i volti. Pure il mio perché devo metterci la faccia.