
Una volta tanto la diplomazia non è ipocrita. Il segretario vaticano per i Rapporti con gli Stati, mons. Paul Richard Gallagher, subito dopo l’incontro con Pompeo al meeting sulla libertà religiosa organizzato a Roma dall’Ambasciata Usa presso la Santa Sede, risponde all’ANSA: «la mossa di organizzare unilateralmente il simposio non significhi una strumentalizzazione del Papa mentre il presidente Trump è alle battute finali della campagna elettorale». «Sì, e questa è proprio una delle ragioni per cui il Papa non incontrerà il segretario di Stato americano Mike Pompeo».
«Irritazione non direi, sorpresa sì per questa uscita che non ci aspettavamo anche se conosciamo bene da molto tempo la posizione di Trump e del segretario Pompeo in particolare». Non è più morbido il segretario di Stato vaticano, il cardinale Pietro Parolin, sempre a margine del simposio sulla libertà religiosa. Santa Sede sia rimasta irritata per gli articoli di Pompeo su First Things? «Sorpresa perché era già in previsione una visita a Roma in cui Pompeo avrebbe incontrato dei vertici della Santa Sede, e ci sembrava quella la sede più opportuna e più adatta per parlare di queste cose e lo faremo: ci incontreremo domani e ci sarà modo di confrontarci su queste tematiche».
Uscita di Pompeo a fini elettorali Usa? «Io non ne ho le prove ma è un pensiero che si può fare». Così il segretario di Stato vaticano. «Non saprei dire che ritorno può avere questa manovra ma non mi sembra che usare l’argomento della libertà religiosa e quello dell’accordo sulla nomina dei vescovi in Cina “sia la cosa più opportuna se quello che si vuole ottenere è il consenso degli elettori. Non è la maniera di farlo perché questa è una questione intraecclesiale», ha affermato. Alla domanda se Mike Pompeo aveva chiesto di vedere il Papa, Parolin ha risposto: «Lo aveva chiesto, ma il Papa aveva detto chiaramente che non si ricevono personalità politiche durante la campagna elettorale, d’altra parte un segretario di Stato incontra il suo omologo, appunto il segretario di Stato», ha concluso riferendosi proprio a se stesso.
«Pompeo impartisce lezioni di morale al papa. È lui, insieme a Trump, il messia del nuovo Vangelo», il commento ironico di Alberto Negri. «Deve sentirsi un paladino della morale questo signore, di origini abruzzesi come Madonna, che con Trump ha cominciato l’anno, il 3 gennaio, vantandosi di avere fatto assassinare il generale iraniano Qassem Soleimani all’aereoporto di Baghdad. Ma il papa ai suoi occhi è un birichino: si è opposto nel 2015, ai tempi di Obama, ai bombardamenti sulla Siria – come Wojtyla si era opposto all’attacco all’Iraq nel 2003 – accusando i commercianti di armi e le potenze che fomentano le guerre. Le guerre americane, dice uno studio della Brown University, hanno fatto in 20 anni 37 milioni di profughi: ma per Pompeo è irrilevante».
In tempi recentissimi, il pontefice è rimasto silenzioso, come la diplomazia vaticana, sugli «accordi Abramo» tra Tel Aviv, Abu Dhabi e Manama. «Ma come? Gli Stati uniti di Trump forgiano una nuova ‘Nato araba’ a trazione israeliana in Medio Oriente e la Santa Sede nulla dice?». Nei casi precedenti, sia per gli accordi di Oslo del 1993 che per il trattato di Camp David del 1978, il Vaticano aveva subito espresso il suo consenso e ricevuto i capi di Stato coinvolti. «Ma forse il papa per Washington ha una colpa ancora maggiore: quella di considerare Israele una potenza occupante e di essere ancora favorevole alla soluzione ‘due popoli, due Stati’». Papa Francesco non può piacere a Washington e in generale alla grande alleanza transatlantico-arabo-israeliana.
Al segretario di Stato Parolin è spettato il discorso di chiusura del convegno. Ma Pompeo aveva già abbandonato la sala. Lo stile non è acqua.