Nagorno-Karabakh, la geografia di Stalin e la storia tormentata di una ‘terra di nessuno’

Le radici del conflitto tra azeri e armeni in una regione ricca di storia e umanità raccontata da Simone Zoppellaro sul Manifesto. Pogrom e rivendicazioni territoriali. «Dalla notte sovietica ai fragili accordi del ’94, una storia irrisolta».

Da Limes

La montagna delle lingue

«La montagna delle lingue. Così gli arabi chiamavano il Caucaso nel Medioevo». Da sempre una terra plurale da un punto di vista etnico, religioso e linguistico, precisa Zoppellaro. «Se è indubbio che, ancora in epoca sovietica, la bilancia demografica in Karabakh pendesse nettamente da parte armena, sarebbe riduttivo e forse inutile declinare la pluralità di innesti che compongono la sua storia e cultura affidandoci agli standard degli attuali e contrapposti nazionalismi». «Ancora oggi si possono scoprire ancora oggi tracce di una contaminazione profonda fra la cultura persiana e quella russa, insieme naturalmente a quella armena e turco-azera». Poi Stalin risolse la questione etnico culturale di quella terra, a modo suo.

Il Karabakh di Stalin

Il ‘Karabakh montuoso’, sull’altopiano armeno, venne affidato da Stalin all’Azerbaijan, per rafforzarlo come possibile avamposto per l’esportazione della rivoluzione in Turchia. E la questione del Nagorno-Karabakh, è rimasta a lungo sepolta sotto «il nero velluto della notte sovietica», per citare un verso di Mandelshtam, fra i massimi poeti russi del secolo scorso, che nel 1931 aveva visitato la regione segnata anni prima da un pogrom anti-armeno, di poco precedenti l’annessione del territorio all’Urss. La questione Nagorno Karabakh, «riemerge in tutta la sua violenza nell’epoca di contraddizioni e aperture della Perestrojka».

Secessione e il pogrom di Sumgait

«A una petizione fatta giungere a Mosca nel 1987 firmata da decine di migliaia di armeni del Karabakh che chiedevano la secessione dall’Azerbaijan, ancora repubblica sovietica al pari dell’Armenia». Ben altri problemi a Mosca dove Gorbaciov cerca ancora di salvare l’URSS, e le proteste in Armenia, in Karabakh e anche in Azerbaijan, sfoceranno presto in una serie di massacri. Terribile il pogrom anti-armeno di Sumgait. Febbraio 1988 le autorità azere organizzano una feroce repressione anche da parte dell’esercito regolare contro la pacifica popolazione armena dell’Azerbaijan e del Nagorno Karabakh. Un massacro durato tre giorni con centinaia, forse migliaia di vittime.

Il Nobel Sakharov per la secessione

Il 21 aprile 1988, il Premio Nobel Andrei Sakharov, scienziato attivista per i diritti umani, in una lettera indirizzata al leader sovietico Mikhail Gorbaciov sui pogrom di Sumgait scriveva:  «Se prima degli eventi di Sumgait qualcuno poteva avere ancora dei dubbi, dopo questa tragedia non resta nessuna possibilità morale di insistere sul mantenimento dell’appartenenza territoriale del Nagorno-Karabakh all’Azerbaijan». In un’intervista al New York Times Sakharov dichiarava che «i massacri degli armeni rappresentavano una vera minaccia per lo sterminio della minoranza armena dell’Azerbaijan e della popolazione del Nagorno-Karabakh». Ai massacri seguirono contrapposte ‘pulizie etniche’ delle diverse minoranze dai due paesi e, infine, la guerra.

La guerra 1992 e il Karabakh armeno

Un conflitto che costerà la vita a più di 30 mila persone, «riducendo la regione intera in uno stato di povertà estrema». Fra gli episodi più cruenti, avvenuti dall’una e dall’altra parte, il massacro di Khojaly da parte armena, ferocia analoga al pogrom di Sumgait. Il bilancio ufficiale fornito dalle autorità azere è di 613 civili, tra cui 106 donne e 83 bambini, mentre per la Croce Rossa Internazionale vi sarebbero stati circa 4 500 dispersi. A vincere, senza mai giungere un accordo di pace, saranno gli armeni che occuperanno l’intero territorio ed alcune piccole regioni adiacenti, auto-costituendosi in una repubblica, quella del Karabakh, non riconosciuta da alcuno stato al mondo, neppure dalla stessa Armenia.

‘Cessate il fuoco’ fragile e senza pace

«Il cessate il fuoco (non si andrà mai oltre, purtroppo) del 1994 risulterà un accordo fragile, continuamente violato, che finirà per nutrire i contrapposti nazionalismi, fra una corsa al riarmo e proclami bellicosi cui, fin troppo spesso, sono seguiti scontri e violenze. Fra le decine di escalation di questo ultimo quarto di secolo, la più feroce si è avuta nell’aprile 2016. Centinaia i morti per un’avanzata territoriale, da parte azera, di assai modeste dimensioni». La cosiddetta «guerra dei quattro giorni», che ha prodotto soprattutto  l’indebolimento della leadership armena dell’ex presidente Serj Sargsyan, la cosiddetta ‘rivoluzione di velluto’, nonviolenta e infine vittoriosa, del 2017.

Azerbaijan dispotico e Armenia immobile

«Questo mentre in Azerbaijan una sola famiglia, quella degli Aliyev, si è mantenuta al potere quasi ininterrottamente dal 1969 ad oggi, costituendosi in una dittatura fra le più stabili e durature del nostro tempo». Ma neppure la nuova leadership in Armenia, premier Nikol Pashinyan, capo carismatico di quella rivoluzione di velluto sempre molto discussa e sospettata, si è rivelata capace di incidere sul processo di pace. «Il Nagorno Karabakh resta così sospeso fra le rivendicazioni contrapposte, anche in termini giuridici, di integrità territoriale (Azerbaijan) e del principio di autoderminazione dei popoli (Armenia).

‘Terra di nessuno’ tanta umanità e storia

«Una terra di nessuno, in termini politici, ma ricca di umanità e di storia, in un contesto segnato da ferite profonde (il genocidio armeno, in primis) ma anche dall’interferenza di Russia e Turchia – quest’ultima assai attiva negli ultimi scontri». Conclusione di Simone Zoppellaro, giornalista e ricercatore che trascorso anni lavorando fra l’Iran e l’Armenia, con frequenti viaggi e soggiorni in altri paesi dell’area: «Restano, in tutto questo, centinaia di migliaia di profughi e sfollati azeri e, in misura minore, armeni, che non sono più potuti rientrare nelle loro case. E resta soprattutto un conflitto che, a quasi trent’anni dal suo inizio, è ancora lontano da una qualsiasi prospettiva di pace».

La guerra di oggi, centinaia i morti

Volontari della Federazione rivoluzionaria armena in partenza per Artsakh

I morti altri a moltiplicare, i proprio a sottrarre, è la regola. E i bollettini parlano di una ecatombe: secondo lo stato maggiore azero in 36 ore di conflitto sarebbero stati uccisi  550 soldati armeni, 200 invece le perdite inflitte a Baku secondo Erevan. L’Armenia ha introdotto la legge marziale e ha annunciato la mobilitazione generale e stato d’emergenza in alcune regioni anche in Azerbaigian. Erdogan appoggia Baku, ed Erevan accusa l’«espansionismo turco» e 4000 soldati turchi per preparare l’offensiva. Contro accusa: foreign fighters da tutto il Medio Oriente starebbero combattendo nelle fila armene. Rischio di scontro diretto tra Turchia e Russia, l’allarme di Yurii Colombo. Basso profilo, per ora, di Putin, alleato dell’Armenia, che chiede la tregua come l’Onu e l’Ue. La Nato – Ankara ne fa parte – sta zitta.

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AVEVAMO DETTO

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