
Nonostante questo, la popolarità del premier nazionalista e populista Narendra Modi continua a crescere in modo esponenziale. Gli ultimi sondaggi danno il suo partito, il “Bharatiya Janata Party”, addirittura al 78% dei consensi. Si tratta però di un successo personale. In sostanza la grande maggioranza dei cittadini continua a considerare Modi il governante ideale, una figura autorevole – ma anche paterna – che si prende cura delle necessità dei suoi “figli”.
E qui occorre ribadire, ancora una volta, il ruolo fondamentale del fattore religioso nel continuo e crescente gradimento per il premier. Modi ha sempre affermato, sin dai tempi in cui governava lo Stato del Gujarat – quello con il tasso più alto di sviluppo industriale, al confine con il Pakistan – di avere in mente un’India integralmente indù.
L’induismo, ampiamente maggioritario nel Paese (quasi l’80% della popolazione), è stato quindi stato promosso a una quasi “religione di Stato”, a scapito di tutte le altre fedi presenti nel subcontinente.
A farne le spese sono ovviamente i musulmani, circa il 14,5%, mentre è assai minore il peso di cristiani, buddisti e sikh. Bisogna però rammentare che in India è presente la seconda comunità islamica al mondo (dopo l’Indonesia). Tra l’altro i musulmani sono in maggioranza nel Kashmir e rappresentano minoranze assai significative in altri Stati chiave quali Uttar Pradesh, Bihar, Bengala occidentale, Assam e Kerala.
Modi non ha mai dato segno di voler instaurare un dialogo con i musulmani. E’ tuttora convinto che buona parte dei problemi indiani derivino dalla politica inclusiva e di conciliazione promossa dal Mahatma Gandhi e poi proseguita dal Pandit Nehru e da sua figlia Indira Gandhi, giungendo sino agli ultimi rappresentanti del Partito del Congresso, sconfitti clamorosamente dallo stesso Modi nelle ultime tornate elettorali.
Proprio questo partito rappresenta parte del problema. Non ha infatti saputo rinnovarsi ed è dominato da una sorta di dinastia che si richiama per l’appunto al nome di Gandhi. Il fatto è che il laicismo del Partito del Congresso non è gradito alla stragrande maggioranza degli indiani, né lo sono le politiche inclusive e pacificatorie che esso continua a propugnare.
Modi vuole lo “Hindu Rashtra”, vale a dire una nazione solo indù, senza mai chiarire quale debba essere al suo interno il destino delle minoranze religiose, incluse quelle molto numerose come l’islamica. Sul piano internazionale ciò ha causato il peggioramento dei rapporti – già molto tesi – con il Pakistan. E senza scordare che ai confini settentrionali i rapporti stanno velocemente deteriorandosi pure con la Cina a cause di antiche dispute territoriali.
Eppure il premier continua a considerare la questione religiosa prioritaria, anche se le riforme economiche da lui promosse non hanno avuto successo. Il Pil è in netto calo e la disoccupazione in rapido aumento, in particolare tra le fasce più deboli della popolazione. Né sono serviti i tanti “lockdown”, totali e parziali, dichiarati negli ultimi mesi.
La rigidità delle politiche di Modi e il suo messianismo indù stanno facendo molto riflettere. Parecchi intellettuali temono, a tale riguardo, che “la più grande democrazia del mondo”, come l’India ama definirsi, si stia avviando lungo la strada di una dittatura religiosa.