Usa-Cina, la guerra economica che rischia di far affondare l’occidente

Alcune recenti indagini della Bank of America indicano che all’Occidente potrebbe costare molto caro il “decoupling”, vale a dire la politica di “disaccoppiamento” dalla Cina che Donald Trump ha posto al centro della sua agenda politica ed economica.
In altri termini, “riportare a casa” i settori manifatturieri che negli ultimi decenni sono stati delocalizzati nella Repubblica Popolare potrebbe costare qualcosa come mille miliardi di dollari, e circolano calcoli ancor più pessimistici.

The U.S. Marine Drum & Bugle Corps performs

Questione economia nelle elezioni Usa

Com’è noto il successo elettorale di Trump nelle ultime elezioni presidenziali è dovuto – anche se non solo – al voto ricevuto da larghi settori della classe operaia Usa, i cosiddetti “blue collar workers” che lavorano nelle industrie in crisi della “rust belt” (cintura di ruggine).
Si tratta del cuore manifatturiero degli Stati Uniti, una vastissima area compresa tra i Monti Appalachi e i Grandi Laghi. Inizia a New York e include Stati fondamentali quali Pennsylvania, West Virginia, Ohio, Indiana, Michigan, Iowa e Wisconsin.
E’ anche l’area che ha espresso per un lunghissimo periodo la potenza industriale americana, vera fonte, per esempio, del successo Usa nelle ultime due guerre mondiali. Germania, Giappone e Italia non compresero che i loro apparati industriali non potevano competere con quello basato nella dianzi citata “rust belt”.

‘Decoupling’, disaccoppiamento a rischio

A partire circa dalla metà del secolo scorso, tuttavia, tale cintura è per l’appunto diventata “di ruggine”, con molte aziende entrate in una crisi irreversibile. Tanti i motivi. In crisi per esempio le acciaierie e le industrie basate sul carbone a causa del crescente ecologismo, e quelle automobilistiche per la spietata concorrenza delle auto giapponesi ed europee.
Inoltre il costo del lavoro e la potenza dei sindacati hanno prodotto una grande migrazione di aziende in contesti con costo del lavoro minore e sindacati pressoché inesistenti. Ne hanno approfittato molte nazioni asiatiche e sudamericane, ma in primo luogo la Repubblica Popolare Cinese che ha eretto ponti d’oro alle industrie americane (ed europee) in fuga.

Se non è Cina, decentramento altrove

Ai “colletti blu” Usa si è rivolto Trump ottenendone i voti, con la promessa di riportare in patria gran parte del settore manifatturiero Usa. Più facile a dirsi che a farsi, ovviamente. E cito un solo esempio.
Nessuno dubita che l’acciaio sia necessario, anzi “strategico” come lo ha definito il governo italiano. Si dà tuttavia il caso che l’acciaio inquini parecchio, e allora è meglio – in teoria – farlo produrre in Paesi meno toccati dalle istanze ecologiche.
Scordando la vecchia tesi marxiana, secondo la quale è il settore primario a reggere l’intera economia, negli Stati Uniti (e nell’Occidente in genere) ci si è illusi di compensare le perdite con il terziario e l’hi-tech. Salvo accorgersi, alla fine, che i conti non tornavano. Dal canto suo la Cina si è messa a disposizione accogliendo le aziende occidentali ansiose di delocalizzare.

Decentramento manifatturiero irreversibile

E’ quindi difficile mantenere la promessa trumpiana di togliere la ruggine alla “rust belt”, e questo potrà sicuramente nuocere alle fortune elettorali dell’attuale presidente.
Si noti però che neppure i democratici sembrano avere le idee chiare su questo problema davvero fondamentale per il futuro degli Usa. Alla convention democratica Joe Biden si è espresso in termini assai generici.
E’ quindi rispuntata una delle vecchie accuse rivolte a Barack Obama, Hillary Clinton e all’intero establishment democratico. Quella, cioè, di avere una visione troppo “globalistica” e per nulla attenta agli interessi nazionali Usa. Anche su questo punto si giocherà la partita tra repubblicani e democratici nelle imminenti elezioni di novembre.

Tags: Cina economia Usa
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