Ha vinto il calcio parlato, la politica si adegua

Alla fine ha vinto il calcio. Non il calcio giocato, quello fatto di reti segnate, passaggi filtranti, palloni scaraventati in tribuna alla viva il parroco… Non quello che si gioca sui campetti di tutto il mondo, nei cortili, negli oratori, sulla spiaggia con un pallone e via. No. Quello delle ilari e pensose chiacchiere televisive. Quello dei colti e fumosi interventi per spiegare tattiche e formazioni, per discutere fino a notte alta davanti alle telecamere del niente, con starlette e personaggi da circo, con la consapevolezza che ognuno in qualunque bar come in qualunque arena televisiva può dire tutto e il contrario di tutto. 

Non c’è una storia da analizzare con un metodo, sono tutti punti di vista orientati da un pregiudizio. Nel caso specifico della fuffa calcistica, dal tifo. Che però non basta a spiegare la diffusione del meccanismo: serve il tifo abbinato alle certezze assolute del tempo, moltiplicato per i tormentoni radiofonici, televisivi e social, e connesso profondamente alla mentalità di un tempo in cui tutti possono esprimere pareri assoluti basati sul niente. Ed è proprio questa la forza: ogni opinione vale uno. La realtà conta zero. Quindi uno a zero e palla al centro, si potrebbe dire per definire questo gioco dell’assurdo. 

Fosse rimasto nel recinto del calcio chiacchierato, delle radio ululate, dei giornalisti griffati e vestiti tutti uguale, sarebbe stato folklore e poco più. Il fatto è che le urla del processo del lunedì e delle sue declinazioni successive sono entrate a far parte del modo di fare della società. Ormai la politica risponde agli stessi dettami. Mediaticamente poco cambia. Interpreti ringhianti si affrontano nell’arena per confondere le acque, per indicare nemici o complotti, surfando sulla realtà come fosse un videogioco. 

Chi non ha slogan e non bercia, non esiste. Chi non riesce a esprimere un parere (a cavolo) in 30 secondi, non esiste. Chi non ha amici nei media, non esiste. L’analisi della realtà, la voglia di far funzionare le cose nella società, sono retaggi del passato. Come le idee di futuro, che cultura e politica dovrebbero poter produrre nella comunità, sui territori, ridotti sempre di più a stracci di marketing e a contrapposizioni social su temi inessenziali. 

Perché questi sono gli effetti. Pensare che tutto sia marketing, quindi mercato, capacità di vendere e di far profitto. E che le cose che determineranno il futuro dei nostri figli vadano in secondo piano. Quindi la cura per i doni della natura, il bene comune, la giustizia sociale, la solidarietà, la conoscenza; quella cultura che ci aiuta a tendere un filo rosso tra la memoria e il presente, per poter agire con consapevolezza per un domani migliore o per lo meno non catastrofico o emergenziale perenne.

Così a chi mi chiede perché non partecipo alle risse social, o alle raccolte firme contro questo o quello, rispondo questo. Amo il calcio dei campetti periferici magnifici dove i bimbi rincorrono un pallone, non quello delle arene furibonde. Preferisco le piccole azioni nel quotidiano per rendere fertile il terreno della cultura, alle roboanti e virtuali battaglie del tempo

Tags: politica
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