
«Quattro anni fa il principe ereditario Mohammed bin Salman (omicidio Khashoggi), che di fatto governa l’Arabia Saudita, ha presentato un piano chiamato Vision 2030 che aveva l’obiettivo di emancipare la sua economia dal petrolio. Molti paesi vicini hanno la loro versione di questo piano. Tuttavia “il 2030 è diventato il 2020”, dichiara un consulente del principe». Rendita da petrolio, da mille miliardi di dollari nel 2012 a 575 miliardi nel 2019.
«Quest’anno i paesi arabi dovrebbero guadagnare circa 300 miliardi di dollari dalla vendita del petrolio, una cifra che non basta nemmeno a coprire le loro spese».
«Partiamo dai produttori di petrolio più ricchi della regione, che possono affrontare nel breve periodo i prezzi bassi. Il Qatar e gli Emirati Arabi Uniti possiedono enormi fondi sovrani. L’Arabia Saudita, la più grande economia della regione, ha riserve di valuta estera per un valore di 444 miliardi di dollari, sufficienti a coprire due anni di spese al ritmo attuale».
«A febbraio, prima che l’epidemia di coronavirus esplodesse nel Golfo, il Fondo monetario internazionale prevedeva che i paesi del Consiglio di cooperazione del Golfo (Ccg) – Bahrein, Kuwait, Oman, Qatar, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti – avrebbero esaurito i loro duemila miliardi di dollari di riserve entro il 2034». Da allora l’Arabia Saudita ha speso almeno 45 miliardi di dollari delle sue riserve liquide.
La città santa della Mecca è chiusa agli stranieri da febbraio. Nel 2019 il pellegrinaggio annuale aveva attirato nel paese 2,6 milioni di pellegrini; quest’anno il limite massimo è stato fissato a mille.
«Nel frattempo monta la rabbia dell’opinione pubblica. I sauditi si lamentano delle nuove tasse, il cui peso ricade soprattutto sui più poveri. “Perché Mbs (Il principe assassino) non tassa i ricchi?”, si lamentano i disoccupati sui social. “Perché non vende il suo yatch e non si mette a vivere come noi?”, chiede una madre di quattro figli nel nord del paese, dove il principe sta costruendo altri palazzi».
«I governanti della regione non possono più permettersi di comprare la lealtà della opinione pubblica». Ed è ‘effetto Domino’. Esempio: «Più di 2,5 milioni di egiziani, quasi il 3 per cento della popolazione del paese, lavorano in paesi arabi che esportano petrolio». Il 5 per cento da Libano e Giordania, 9 per cento dalla Palestina. I soldi che mandano a casa costituiscono una parte considerevole delle economie dei loro Paesi.
«I produttori di petrolio sono anche grandi mercati per altri paesi arabi. Nel 2018 hanno assorbito il 21 per cento delle esportazioni dall’Egitto, il 32 per cento dalla Giordania e il 38 per cento dal Libano». «Paesi del Golfo ridimensionati e impoveriti avranno molti più consumatori a bassa capacità di spesa». E sarà rovina a macchia d’olio.
«In Libano i turisti provenienti da tre soli paesi -Kuwait, Arabia Saudita ed Emirati Arabi- rappresentano un terzo di quanto speso in totale dai turisti. La maggior parte dei turisti in Egitto proviene dall’Europa, ma i turisti del Golfo si fermano di più e spendono più soldi nei ristoranti, nei bar e nei centri commerciali». «È improbabile che sloveni o singaporiani facciano lo stesso».
«In un certo senso gli stati del Golfo sono diventati snodi di potere e influenza nel Medio Oriente per un mero incidente storico». Prima del petrolio a governare la regione erano le grandi capitali arabe dell’antichità, Il Cairo, Damasco, Baghdad, i la Persia ora Iran. Adesso la storia si rincorre, e saranno sconvolgimenti e dolori.
«L’Egitto non riceve più soldi da anni. Nessuno dei paesi del Golfo sembra disposto a salvare dalla bancarotta il Libano. Nel 2018 la Giordania ha dovuto implorare di ricevere un pacchetto di aiuti di 2,5 miliardi di dollari in cinque anni dai paesi del Golfo, metà di quello che aveva avuto nel 2011».
«Un Medio Oriente meno centrale nella fornitura globale di energia sarà un Medio Oriente meno importante per gli Stati Uniti. La Russia potrebbe subentrare per riempire il vuoto, ma i suoi interessi regionali sono limitati, così come la sua determinazione a mantenere il suo porto sul Mediterraneo a Tartus, in Siria». Ma la Cina è pronta.