
Dalla rotoballa in Val d’Orcia al capolavoro in un museo. Ogni cosa prende vita solo se è toccata dalla manina sapiente della influencer. Anche un libro, un oggettino, un vestitino, un qualunque consiglio per gli acquisti di questa ultima declinazione di mercato in cui agisce il postmauriziocostanzesimo del terzo millennio. Prima del selfie il niente. Prima della scoperta a suon di wow e cuoricini del mondo, quel mondo era nell’ombra per i follower.
Non mi dispiace. Preferisco la chiarezza degli intenti. Ammiro le persone di successo, soprattutto quelle che il successo se lo sono sudato facendo cose del tutto inutili, secondo un vetero concetto della vita che noi poveri cristi, visionari di rivoluzioni sociali e spirituali, camminatori senza progetto, barbari fuori moda, viviamo costantemente. Non parlo neanche dei sapienti, dei ricercatori, di chi ama il prossimo, della bellezza gratuita dei paesaggi, della difesa del mondo dall’affronto della ricchezza senza altra finalità che il suo accumulo.
Ammiro le capacità che non possiedo, quel tocco magico che dà alla realtà una patina fluorescente, che cancella le contraddizioni, le paure, le ansie. Rendendo, chessò, l’arte un gioco di ruolo. Un cartellino da timbrare in massa, senza altra ipotesi culturale da tessere nella relazione con gli altri, con l’artista e con la propria esistenza. Ma solo un dover-esserci che premia l’ideatore della fenomenologia. Qualcosa che, incidentalmente, può essere un’opera, un gesto di bellezza, un capolavoro. Ma è uguale se si tratta di un oggetto brutto e inutile individuato e indicato come arte dal mercato paraculo che tende a sottrarre alla bellezza come energia e al giudizio, oltre che alla comprensione e alla genialità creativa, questo segmento rituale in cui i ricchissimi a suon di milioni stabiliscono i valori. E i poveri gonzi in fila a celebrare la ricchezza in modo virtuale o reale attraverso mestatori al servizio del sistema scenico.
Ben vengano quindi le influencer. Che restituiscano al cittadino ordinario, imbevuto di ideologie socialmediatiche, la sua dimensione esatta: fruitore di massa di uno spettacolo pirotecnico con vista sulla speranza di poter influenzare un vicino, un gatto… . Ognuno deve avere il suo ruolo sotto il sole. E il ruolo dell’ordinario è questo.
E poi che meraviglia il gioco della parti per interpretare il nulla delle cose che i media raccontano. L’accapigliarsi nobile di tromboni e intellettuali, fan e follower, nella difesa e nell’offesa, discutendo come se fosse questione di vita o di morte sull’avvenenza o meno dei concetti e non solo di una qualche influencer.
La spettacolarizzazione è tutto. Il resto è silenzio. Misteriose sono le strade che conducono il gregge alla sua evangelizzazione sotto forma di like o di follower. E sovrano è il senso del marketing che guida la nuova acculturazione dei follower all’idea che la vita non sia altro che merce. Una roba senza alcun valore umano, senza nessuna possibilità che sia compresa e amata, ma che deve essere solo consumata.
Un lettore, commentando il mio ultimo pezzo, mi ha scritto: bene l’analisi, ma lei che cosa propone? Come se in ogni analisi e in ogni pezzo giornalistico dovesse celarsi il segreto della guarigione. La risposta vale, preventivamente anche oggi. Già è un privilegio riuscir a vedere, a cogliere contraddizioni, a scrivere su un giornale libero per mostrare un altro lato della questione. Già è una ricchezza cercare di staccare i piedi per terra, per un balzo di lato, per camminare a un ritmo diverso. Ognuno leggendo e riflettendo può considerare le questioni ponendosi domande e cercando una stradina meno battuta per fare la propria parte. Per sovvertire il conformismo che ci paralizza.
Ps
Più tardi farò leggere questo testo al mio influencer preferito. Appena avrà finito di farsi selfie, occhio torvo e labbrucce pronunciate, appoggiato come un attore a una rotoballa spaziale.