La decisione dei leader europei riuniti a Bruxelles riguarda l’utilizzo di parecchi miliardi di euro per rilanciare l’economia europea dopo l’emergenza covid. Ha finito con l’assumere connotazioni ben più complesse. Alcuni Paesi, detti “frugali”, ma che noi consideriamo solo “tirchi”, (Olanda in primis) si sono messi di traverso, guardando al soldo e non alla solidarietà, uno dei pilastri fondanti dell’Unione Europea. Altri, come il gruppo di Visegrad (Ungheria e Polonia in testa) sono stati attenti a non essere penalizzati economicamente per il loro mancato rispetto dello stato di diritto. Il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel si è barcamenato nel cercare di bilanciare la quota a fondo perduto e quella data a prestito, alla ricerca di un accordo.
Il punto nodale, a nostro parere, non è quello monetario, bensì quello della “governance”. Insomma, chi e come dovrebbe verificare i progetti di investimento degli Stati, l’erogazione dei fondi ed il loro corretto impiego. La struttura europea è molto complessa. L’idea più semplice ed operativa è quella di affidare questo compito alla Commissione che, tra l’altro, aveva presentato a maggio questo “Next Generation Eu Programme”, all’interno del quale c’è il Recovery Fund. Invece no: il primo ministro olandese Mark Rutte vorrebbe affidarla al Consiglio, quindi ai rappresentanti dei singoli Stati, con un voto all’unanimità, o con diritto di veto.
Più corretta, invece, la richiesta ad alcuni Paesi, Italia in testa, di fare pulizia in casa. Insomma, realizzare quelle riforme che si attendono da anni.
In una operazione che chiama in causa somme così ingenti, progetti che ridisegnano la struttura economica e produttiva e che dovrebbero aprire la strada alle nuove generazioni, l’analisi, verifica, approvazione e controllo sono essenziali. Lo sono anche per noi in Italia, dove la possibilità che questa grande massa di denaro stimoli gli appetiti della criminalità organizzata, o si disperda in mille rivoli clientelari. All’estero ci conoscono bene, ma ciò non giustifica l’atteggiamento, spesso presuntuoso e vagamente ricattatorio, con cui alcuni si sono mossi.
Chiunque regala o presta denaro vuole sapere come viene speso. Figuriamoci quando parliamo di centinaia di miliardi. Aggiungiamo che alcuni Stati, spesso accomunati in una specie di gioco delle parti, hanno puntato il dito contro i Paesi mediterranei “spendaccioni”, dimenticando che fruiscono spesso di condizioni fiscali di vantaggio, di sconti sui contribuiti da versare al bilancio comunitario, di un grande mercato di sbocco per i loro prodotti, di investimenti ingenti in quegli stessi Paesi che vorrebbero riportare all’ordine, compresa l’Italia.
Senza un accordo, rischiano di veder deprezzato il valore delle loro società quotate nelle borse estere, oltre che far scendere il valore dei titoli di Stato dei Paesi più indebitati. Potrebbe succedere già oggi, a mercati aperti. Ma questo è forse un aspetto marginale rispetto allo scossone inferto ad una Europa unita che non riesce ad assumere una decisione di così vitale importanza nel modo più utile e corretto ed in tempi brevi.
L’episodio, trascinatosi per troppi giorni, dove sono prevalse ragioni di politica interna, piuttosto che la ricerca del bene comune, chiama in causa la struttura organizzativa di questa Europa, che non è mai stata particolarmente efficiente, ma che denuncia oggi ritardi e carenze davvero notevoli. Principalmente per scelte politiche accumulatesi negli anni ed in concomitanza con l’aggregazione di altri Stati, fino ad arrivare agli odierni 27.
Come ha detto Jean Monnet: “i leader vanno e vengono, ma le istituzioni rimangono”. Lo capiscono alcuni di questi personaggi spesso altezzosi che si aggirano oggi a Bruxelles e dintorni?