
La massiccia emigrazione italiana in Svizzera cominciò all’indomani della Seconda Guerra mondiale, soprattutto perché il sistema produttivo della Confederazione non aveva subito le distruzioni della guerra; in precedenza la meta principale degli italiani era stata al di là dell’Oceano, sia negli Stati Uniti che in diversi stati sudamericani. In Svizzera i primi ad arrivare, anche per una questione di contiguità, furono italiani provenienti dalle regioni del Nord, ma negli anni Sessanta cominciò a manifestarsi un’ondata più numerosa proveniente dal Sud, tanto che intorno al 1965 la stima degli italiani immigrati presenti si aggirava intorno al mezzo milione. D’altra parte, dal 1860 ad oggi, il numero complessivo degli italiani emigrati per motivi di lavoro in tutto il mondo è stato di circa trenta milioni: sono numeri che fanno riflettere e andrebbero confrontati con quello dell’attuale popolazione della penisola che secondo i dati ufficiali è di poco più di sessanta milioni. L’altro dato importante da ricordare è che – proporzionalmente alla propria superficie e popolazione – la Svizzera ha assorbito un numero di immigrati superiore alla Germania e al Belgio e per questo occupa una posizione a sé stante nella storia dell’emigrazione italiana.
Gli italiani erano quindi moltissimi, se rapportati agli svizzeri, e provenivano anche da un paese confinante, ma non fu un idillio, né un amore a prima vista. Anche se oggi alcune pubblicazioni ufficiali elvetiche rappresentano gli italiani come un modello di integrazione e collaborazione non mancarono pagine oscure, per non dire nere e anche purtroppo molto dolorose. Alla fine dell’estate del 1965 una valanga di più di due milioni e mezzo di metri cubi di neve, ghiaccio e fango si abbatté sulle baracche del cantiere dove si stava costruendo la diga di Mattmark: le vittime furono ottantotto, delle quali cinquantasei italiani. La valanga in un certo senso era prevedibile e le baracche si trovano sulla possibile traiettoria ed iniziò una lunga e accurata inchiesta. Dopo un’istruttoria durata sette anni, nel 1972 gli imputati furono assolti. Fu una sorta di Marcinelle delle Alpi, che oggi tuttavia è praticamente dimenticata e verrebbe da chiedersi perché.
Lo scrittore svizzero Max Frisch divenne celebre per aver coniato una frase che col tempo sarebbe diventata un vero e proprio aforisma esteso a tutto il mondo dell’immigrazione: «Abbiamo cercato delle braccia e sono arrivati degli uomini». Pochi sanno però come ebbe origine questo primo ripensamento sui «Gastarbeiter» (“lavoratori ospiti”). Lo scrittore era entrato in un giorno festivo in una trattoria molto economica dove erano soliti riunirsi per il pranzo gli immigrati italiani. Al contrario delle sue aspettative non vide persone sedute ai tavoli con abbigliamento da lavoro o abiti laceri. Nonostante l’immaginario collettivo degli svizzeri rappresentasse invece perennemente gli italiani in canottiera o in tuta da cantiere, Frisch vide uomini abbigliati con ‘i vestiti della festa’ come erano soliti fare nei loro paesi di origine. Nelle famose valigie di cartone legate con lo spago, magari non senza insistenze da parte dei familiari alla partenza, era stato infilato il vestito ‘buono’, una parte della loro dignità di lavoratori e uomini.
Un capitolo separato, un’appendice a tutte queste storie fatta invece di pagine dal tono malinconico o grottesco, è rappresentato dal cibo, o meglio non tanto dall’alimentazione in sé, quanto dalle consuetudini che ruotano intorno alla tavola, che non è solo un insieme di stoviglie o ricette, ma una metafora della convivenza. Qui forse si manifestò più forte che altrove un sentimento di scarsa comprensione, o di rigetto venato alle volte se non da razzismo da xenofobia. Un emigrato di origine veneta, per la precisione proveniente dalla provincia di Padova, fu scoperto dopo aver ucciso un cigno e averlo messo in salamoia. Fu fermato ed espulso in un modo plateale per farne forse un esempio: fu infatti accompagnato alla frontiera con un vagone speciale riservato ai detenuti. Altri due lavoratori, provenienti invece dal Sud, furono sorpresi invece mentre cuocevano un porcospino e per questo espulsi quasi immediatamente. Mentre la stampa popolare, in particolare il giornale conservatore «Blick», dava risalto all’inciviltà di questi gesti commessi da ‘stranieri’, alcuni giornalisti svizzeri rivelarono invece che nel cantone di Appenzell erano talvolta imbanditi banchetti con carni di cani e nel Bernese era stato arrostito un cucciolo di orso.