
La scorsa settimana, nell’Est della Siria (regione di Deir-ez- Zour), uno strike mirato condotto da droni americani partiti dalla base di Ain Al Asad nell’ovest dell’Iraq , ha colpito un convoglio di mezzi blindati e di rifornimenti delle milizie para-iraniane, uccidendo almeno 12 uomini. Si è trattato di un’operazione preventiva a largo raggio. Basta, infatti, guardare la cartina per verificare la distanza che intercorre tra le basi israeliane della Galilea, quelle USA in Iraq e la regione siriana colpita, nell’estremo oriente del Paese. A Gerusalemme e a Washington , specie dopo la morte di Qassam Soleimani (il comandante delle brigate iraniane Al-Qods), sono convinti che gli ayatollah stiano riorganizzando le loro forze presenti in Siria e nel nord dell’Iraq.
Il timore è sempre lo stesso: che Teheran voglia sfruttare l’epilogo della guerra civile siriana per installare a macchia di leopardo le sue guardie rivoluzionarie, con una sorta di disposizione strategica che punti a tenere sotto scacco il Golan israeliano e parte del Libano. Secondo spifferi di corridoio, attribuiti ai servizi di intelligence dello Stato ebraico, del convoglio facevano parte anche jihadisti in arrivo addirittura dall’Afghanistan oltreché da alcune regioni della Mesopotamia. In questa fase, l’allerta israelo-americana sui movimenti delle truppe iraniane in Siria è massima, perché si sospetta che gli ayatollah vogliano sfruttare l’emergenza pandemica, che assorbe l’attenzione di tutte le diplomazie per rischierarsi al meglio senza sollevare troppe attenzioni.
Ma hanno fatto i conti senza l’oste, cioè gli israeliani. Che tengono gli occhi bene aperti di giorno e, soprattutto di notte, quando i convogli dei paramilitari sciiti si muovono più intensamente per non essere visti. E infatti, va ricordato un altro attacco, condotto recentemente da jet israeliani nella zona di Masyaf, provincia di Hama. In quell’occasione sarebbero stati colpiti delle installazioni militari e dei laboratori di ricerca. Naturalmente, seguendo la nuova linea di condotta delle forze armate di Gerusalemme, il governo israeliano non ha assolutamente reclamizzato il blitz. Resta il fatto, che l’area continua da essere un vero calderone in ebollizione e che, come dimostrano i combattenti in arrivo anche dall’Asia centrale, funge da attrazione irresistibile per tutti i jihadisti in libera uscita.
D’altro canto, se in Medioriente il clima è sempre più teso, non è che in Afghanistan le cose vadano meglio. Venerdì una bomba piazzata in una moschea durante la rituale preghiera settimanale ha fatto quattro morti, tra cui addirittura un imam. Si tratta dell’ennesima dimostrazione di come i tentativi di sottoscrivere un trattato di pace onnicomprensivo siano ostacolati da più parti. L’ordigno è esploso dopo lo scoppio che si era verificato alcuni giorni fa in un’altra moschea, quasi a dimostrare che esiste una terribile faida intestina all’interno delle formazioni islamiste. La materia del contendere è nota: metà dei talebani è ormai decisa a sotterrare l’ascia di guerra, l’altra metà invece non ne vuole sapere e rifiuta qualsiasi compromesso con gli “infedeli” americani.
A seguito dei colloqui intavolati lo scorso mese in Qatar, il governo di Kabul si è impegnato in questi giorni a liberare migliaia di prigionieri, tra cui alcuni noti esponenti talebani. Probabilmente non ci si è messi d’accordo sulla lista dei nomi. O, ancora più probabilmente, ci sono dei gruppi e delle fazioni, in lotta tra di loro, che per rivalità tribale non vogliono proprio scendere a compromessi. Tra le altre cose, salgono anche le tensioni tra il governo di Kabul (sunnita) e quello di Teheran (sciita). Gli ayatollah sono infatti convinti che i gruppi sunniti più estremisti abbiano ormai preso di mira le minoranze sciite in quella che sembra ormai diventata una vera e propria guerra civile dentro il composito universo islamico.