
Andando all’indietro nell’elenco delle brutalità senza motivo, c’è Brianna Taylor, 28 anni, guidava l’ambulanza per i pazienti di Covid in Kentucky. L’hanno uccisa in un blitz antidroga in casa sua solo perché hanno sbagliato indirizzo.
E poi tutti i casi già tristemente noti qui in America tra cui Tamir Rice, il 12enne ucciso a Cleveland nel 2014 perché aveva in mano una pistola giocattolo. O Eric Gardner, soffocato dalla stessa ferina ubris di alcuni agenti mentre gridava “I can’t breathe”.
Non posso respirare. È un dolore fisico. Ma non solo.
È il grido di chi non ha più aria né diritti.
Am I next? Sono io la prossima vittima? C’era scritto così ieri sul cartello di Chandolance Smith, 23 anni. “Anche se sono disarmata o persino se rispetto la legge non posso avere fiducia nei poliziotti” mi ha detto ieri. “Indipendentemente dal nostro livello culturale o dal nostro lavoro, noi afroamericani qui siamo discriminati e siamo un obiettivo per la polizia”.
L’ho incontrata mentre scattava una foto davanti al nuovo indirizzo sulla 16esima strada: “Black Lives Matter Plaza”.
La sindaca di Washington ha modificato il nome di una strada, forse una mossa scaltra anche sul piano elettorale per le sue ambizioni personali, senz’altro utile per la rielezione.
Ma qui non si sta solo riscrivendo la toponomastica.
Si sta scrivendo la Storia.
Forse qualcuno non se n’è accorto.
Sta diventando meta di un pellegrinaggio laico. Punto d’arrivo di una marcia per i diritti iniziata con Martin Luther King e forse mai terminata. Il ginocchio – come quello assassino dell’agente che ha tolto il fiato a George Floyd a Minneapolis – sta sul collo degli afroamericani da 401 anni. Come ha detto il reverendo Al Sharpton nell’orazione funebre di Floyd.
Dal 1619, da quando in Virginia arrivò il primo africano.
Intanto il presidente sta scavando un fossato ideologico intorno alla Casa Bianca. Quasi tre chilometri di recinzioni, giù fino al Mall e all’obelisco di Washington.
Mentre ieri decine di migliaia di persone gridavano i nomi di George e degli altri e urlavano “No Justice – no peace”, lui dalla roccaforte sigillata che fino a pochi giorni fa era la Casa degli Americani, saettava il suo cinguettio digitale: “Law and order”.
Le grandi proteste degli Anni Sessanta per i diritti civili portarono al Civil Rights Act (1964), al Voting Rights Act (1965), per quei diritti di voto tuttora non del tutto garantito, e a Fair Housing Act (1968) per il diritto all’abitazione senza discriminazione.
Alla Casa Bianca c’era Lyndson Johnson.
E i leader della protesta dei neri venivano ricevuti allo Studio Ovale.
Oggi la residenza del presidente è inaccessibile. Blindata.
Una fortezza dove è rinchiuso il capo della “più grande democrazia dell’Occidente”. Sembra un ossimoro.
Intorno non s’arresta l’assedio. Che è pacifico, perché i teppisti dei primi giorni sono stati emarginati.
Ho visto decine di migliaia di manifestanti, non-violenti, rumorosi, colorati, rispettosi (malgrado qualche coro di insulti rivolto alla stesso presidente). Che ripulivano le strade dove passavano. Che offrivano acqua e snack. Non si fermeranno facilmente.
Questo è un assedio testardo, durerà.
Tutti i muri prima o poi cadono. Historia magistra vitae.
Quello di Berlino venne preso a picconate un novembre.
Forse il prossimo novembre abbatteranno anche questo.