
«Pechino, in sostanza, ha in mano un’arma che consentirebbe di paralizzare la produzione bellica americana e di superare il gap tecnologico con gli Usa», avverte Marsonet.
Mentre si attende di capire fino a che punto sia disposto a spingersi Donald Trump nella guerra dei dazi contro la Cina, conflitto che a detta di molti si sta trasformando in una nuova Guerra Fredda, i cinesi reagiscono facendo ricorso a un asso nella manica di cui tutti sanno, ma pochissimi parlano.
Si tratta delle cosiddette “terre rare”, delle quali la Repubblica Popolare detiene attualmente una sorta di monopolio a livello mondiale. Stiamo parlando di minerali importantissimi che si estraggono per l’appunto dalle suddette “terre rare” come antimonio, bismuto, tungsteno, gallio etc.
Il fatto curioso è che, pur essendo vero che la Cina possiede tali minerali in abbondanza e ne è il principale esportatore, essi si trovano anche altrove. Per esempio in Groenlandia, Canada, Brasile, Sudafrica e negli stessi Stati Uniti. Parrebbe dunque facile aggirare il monopolio cinese incoraggiando l’estrazione in questi Paesi.
Tuttavia non è così. Tale estrazione è infatti costosissima e, per di più, risulta spesso pericolosa per gli addetti a causa della loro radioattività. I cinesi possono ignorare – o, almeno, curarsi poco del problema – a causa del basso costo del lavoro in loco e delle scarse condizioni di sicurezza di cui godono i lavoratori cinesi.
Altrove, invece, il problema non può essere ignorato per il peso dei sindacati e per una coscienza ambientalista cresciuta moltissimo negli ultimi decenni. Si noti che la leadership di Pechino comprese subito di disporre di un’arma di grande potenza nelle contese commerciali. Già Deng Xiaoping, durante una riunione dell’ufficio politico del Partito comunista, disse nel lontano 1992 che gli arabi hanno il petrolio e i cinesi le terre rare, così dimostrando di aver perfettamente compreso il loro valore strategico.
Armamenti e gap tecnologico
Il fatto è, infatti, che le terre rare sono fondamentali per l’industria bellica (anche se non solo per quel motivo). E lo sono soprattutto per la sofisticata industria bellica Usa. Lo sono per i contestatissimi aerei “invisibili” F-35, per la costruzione di ognuno dei quali ci vogliono oltre 450 Kg di terre rare. E lo sono pure per i celebri missili Tomahawk e per i sottomarini nucleari di ultima generazione.
Le terre rare sono inoltre necessarie per gli iPhone e i tablet della Apple. Se, come accade, questi minerali così preziosi sono per il 95% in possesso della Cina, è ovvio che per gli Usa il problema diventa drammatico. Pechino, in sostanza, ha in mano un’arma che consentirebbe di paralizzare la produzione bellica americana e di superare il gap tecnologico con gli Usa.
Quando le due potenze sembravano andare d’amore e d’accordo, con la delocalizzazione nel territorio cinese di moltissime aziende hi-tech americane, nessuno pensava al problema che, ora, diventa fondamentale con il tentativo di Trump di realizzare il “decoupling”, vale a dire il divorzio tra i due apparati produttivi.
Di qui l’idea trumpiana di finanziare la Nasa per realizzare delle miniere lunari. A quanto pare, infatti, nel nostro satellite si trovano terre rare in abbondanza. Washington vuole coinvolgere gli alleati nel suddetto programma escludendo ovviamente Cina e Russia.
Si capisce quindi perché Trump abbia lanciato l’idea di creare una Forza Spaziale indipendente dalle branche tradizionali delle Forze Armate Usa, suscitando peraltro parecchie perplessità anche nell’establishment militare.
Come si diceva all’inizio, tutto dipende da come si evolverà la guerra commerciale tra Cina e Stati Uniti. Se dovesse continuare, o addirittura peggiorare, nessuno può escludere che essa si trasferisca pure nello spazio. E per capire come finirà la vicenda, è ovvio che bisogna attendere anche il risultato delle elezioni americane del prossimo 3 novembre.