Usa-Cina dal ping-pong ai ceffoni. Mai per amore sempre per interesse

Mezzo secolo di relazioni complicate tra Usa e Cina, tra le accuse di ’Virus cinese’ e colpi di dazi, con Trump che difende Hon Kong e Taiwan per dar fastidio senza mai nominare la questione democrazia, forse per invidia del regime che non minaccia il potere del collega Xi Jinping, che non ha elezioni di cui aver paura.

Un passaggio sull’autobus

Nell’aprile 1971, quasi mezzo secolo fa, una squadra di giocatori americani di tennis da tavolo si recò in visita ufficiale a Pechino su invito dei colleghi cinesi. Il fatto fu sensazionale perché da ventidue anni e cioè dal 1949, anno della proclamazione della Repubblica Popolare Cinese, non c’erano più state relazioni diplomatiche tra i due paesi, ma si era combattuta invece la guerra di Corea e quella del Vietnam era ancora in corso. Inoltre gli Stati Uniti all’epoca riconoscevano Taiwan, acerrima nemica della RPC con cui in numerose occasioni si erano avuti momenti di pericolosa tensione; gli Usa inoltre temevano un’eventuale presenza all’Onu della Repubblica popolare dove si era appena conclusa la ‘rivoluzione culturale’ che in quel momento sembrava una rivoluzione da esportare. In mezzo a tante difficoltà e incomprensioni reciproche era semplicemente accaduto che Glenn Cowan, uno sportivo americano, attardatosi dopo una partita ai campionati mondiali in Corea, avesse chiesto un passaggio all’autobus della nazionale cinese; dopo i convenevoli, i ringraziamenti e lo scambio di piccoli oggetti con il cinese Zhuang Zedong, era arrivato infine l’invito ufficiale che fu accettato in breve tempo.

Mao Zedong, Zhang Yufeng and Richard Nixon

I nani di oggi che fanno giganti i protagonisti di ieri

Nel 1971 il presidente degli Stati Uniti era Richard Nixon e suo consigliere per la sicurezza nazionale  Henry Kissinger. Fu Kissinger, recatosi un paio di volte in segreto a Pechino in un clima ancora di sospetto, a tessere le trama per un riavvicinamento, poi confermato nell’annuncio ufficiale di Nixon del 15 luglio. Nello sconcerto generale, soprattutto dell’Unione Sovietica, ma anche degli alleati asiatici degli Stati Uniti, Nixon e consorte si trattennero in Cina nell’ultima settimana di febbraio del 1972 in una memorabile visita di stato con tanto di escursione sulla Grande Muraglia. Iniziarono i contatti diplomatici che avrebbero portato al riconoscimento ufficiale della Cina popolare nel 1979. Di volta in volta a sostenere questa politica furono altri presidenti come Gerald Ford e Jimmy Carter, ma inevitabilmente crebbe anche lo scontento di Taiwan. Nel 1980, poco dopo il suo insediamento, il nuovo presidente Ronald Reagan fece delle allusioni all’altra Cina: su consiglio dei suoi collaboratori in seguito le mitigò, ma la ritrattazione non fu sufficiente perché nel 1983 Deng Xiaoping ripescò l’antica dottrina di Mao sui ‘due’ grandi imperialismi e sul futuro della Cina come alternativa.

Il ministro degli esteri cinese Chou En Lai e il presidente Nixon

Le prime nubi

Con altalenanti rapporti e sempre con l’ingombrante presenza di Taiwan si arrivò ai drammatici fatti di piazza Tiananmen nel maggio 1989 e alle successive accuse di violazione dei diritti umani che provocarono le sanzioni economiche, confermate anche nell’incontro del G7 a Houston nel luglio 1990. Fu la fine della relazione privilegiata sino a quel momento esistente tra le due potenze, ma nel frattempo, a partire dagli anni Ottanta, in Cina si stava assistendo ad uno sviluppo economico sorprendente grazie alle ‘grandi riforme’ sostenute da due nuovi leader succeduti a Deng Xiaoping e cioè Jan Zeming e Hu Jintao. Assieme allo sviluppo economico, che creò nuovi e floridi rapporti commerciali utili anche agli Stati Uniti, la Cina maturò però anche le proprie priorità strategiche. Al primo posto la creazione di un ambiente regionale non ostile al paese e al secondo, nuovi rapporti con le altre principali potenze globali. Per sostenere tutto era anche necessario che la Cina potesse approvvigionarsi di diverse materie prime quali il petrolio e il gas naturale. I primi ostacoli alla marcia della Cina vennero quindi da Taiwan, che la Cina continua a considerare ‘parte’ del territorio della Repubblica Popolare, e dalla complessa situazione ai confini con l’India e il Pakistan, la Corea del Nord e il Giappone.

La svolta recente

Fino ai primi anni del Duemila, con fasi alterne di tensione e distensione, il rapporto tra Cina e Stati Uniti si poté definire quasi ‘normale’, soprattutto perché la maggior parte degli economisti e dei politologi americani sosteneva che la sola politica possibile fosse quella di favorire l’integrazione della Cina nelle relazioni internazionali e nei commerci mondiali. Il resto – si pensava – sarebbe arrivato da solo. A partire però dalla crisi finanziaria del 2008 le cose cominciarono a cambiare: di fronte alla crisi americana emerse con chiarezza la crescita esponenziale della Cina e delle sue esportazioni, tanto più che fino a quel momento la Cina aveva acquistato titoli di stato americani sostenendo la finanza di quel paese. Per uscire dalla crisi evitando la disoccupazione la risposta cinese allora fu quella di aumentare la produzione tessile, automobilistica e tecnologica da esportare sempre negli Stati Uniti continuando ad acquistare titoli americani. Questa relazione strettissima tra le due economie rischia ora di trascinare in una crisi ulteriore anche il resto del mondo. I ceffoni dell’amministrazione Trump o la minacciata svolta protezionista non sembrano l’unica soluzione possibile. 

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