
Sebbene nell’immaginario collettivo il ricordo dell’epidemia di influenza spagnola – esplosa alla fine della Prima Guerra mondiale – sia ancora radicato tanto da ricomparire oggi molto spesso a confronto con la cronaca quotidiana, uno studio completo su scala nazionale è stato pubblicato solo da pochi anni e cioè quasi un secolo dopo. In Europa, tra l’inverno del 1918 e la primavera del 1919, l’epidemia mieté milioni di vittime, eppure gli studi più esaurienti, ricchi di dati e meglio documentati restano sempre quelli su base locale o per settori. In Italia sappiamo con precisione come si comportarono i sindaci di alcuni comuni o singoli prefetti nelle loro province, ma ricavare un quadro generale richiede un ancora certo sforzo di raccolta e rielaborazione delle fonti che non sono sempre omogenee.
Nonostante le reale pericolosità del contagio e della malattia fosse stata mitigata nelle dichiarazioni ufficiali o addirittura in parecchi casi negata (quante similitudini con personaggi dell’oggi), la guerra ancora in corso impose dei comportamenti obbligati. Poiché era assolutamente necessario rifornire le truppe al fronte, la produzione industriale in ogni caso doveva proseguire senza condizioni, i trasporti non potevano fermarsi e questo valeva per tutti i paesi belligeranti: a Francoforte, importante centro industriale e nodo di comunicazioni dell’impero tedesco, nel luglio 1918 un terzo dei lavoratori e dei ferrovieri era già contagiato, mentre non conosciamo invece quanti guarirono. Poiché tutta Europa era in guerra è facile immaginare la situazione in altri luoghi.
La scelta tra lavoro e rischio della malattia si pose drammaticamente anche in Italia, dove si decise di non limitare i servizi essenziali, ma di chiudere solo alcune attività marginali. Alla vigilia della fine della guerra, prima della battaglia di Vittorio Veneto a metà ottobre 1918, i ferrovieri italiani ammalati risultarono essere circa il 40%: da notare che i trasporti erano strettamente limitati a quelli di ‘importanza militare’ e si era cercato di ridurre l’affollamento dei treni civili riducendo la vendita dei biglietti. Nonostante questo, mancava personale per la pulizia dei vagoni passeggeri e questa grave carenza sanitaria fu oggetto di un’interrogazione parlamentare. La mancanza di forza lavoro era estesa quasi ovunque, ma soprattutto al mondo agricolo: poiché la maggioranza dei soldati al fronte era composta da contadini, ciò significava che il lavoro incombeva su donne e ragazzi.
La vera trasformazione avvenne nel campo della sanità pubblica e si potrebbe dire che gli albori del welfare risalgano appunto a un secolo fa. In passato esistevano istituzioni filantropiche e di carità soprattutto religiose, ma una riforma attuata da Crispi alla fine dell’Ottocento le aveva in parte modificate e sottoposte a una legge statale: esse restavano tuttavia su base locale, prive di un coordinamento generale. I medici erano al fronte e per sopperire alla mancanza di sanitari si ricorse all’istituzione che con la guerra aveva già fatto un balzo in avanti: fu il momento della Croce Rossa che sino ad allora aveva svolto un ruolo importante al fronte e in precedenza aveva collaborato nei soccorsi in occasione dei terremoti di Messina e Avezzano.