Turchia potenza e prepotenza

La recente liberazione di Silvia Romano, la cooperante italiana dalle mani dei terroristi di al-Shabaab ha portato nuovamente all’attenzione della comunità internazionale l’estremo dinamismo turco, anche nel settore dell’intelligence.

Alleato militare scomodo

La Turchia è un alleato strategico degli occidentali fin dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, ha partecipato con le sue forze militari in Corea del Sud, ha protetto il fianco sud dell’Alleanza durante la Guerra Fredda e ha sempre mantenuto stretti collegamenti con le controparti militari sia occidentali che di Israele. Tutto ciò anche se i rapporti tra i paesi occidentali e la Turchia non sono sempre stati idilliaci, prevalentemente a causa dei noti problemi circa i diritti umani, per effetto dell’invasione turca di Cipro del 1973 e delle continue tensioni con la Grecia, altro membro strategico della NATO.

Le prime mosse del nuovo corso, subito dopo l’elezione di Erdoğan nel 2002, avevano lasciato ben sperare la comunità internazionale, grazie all’inaugurazione della strategia del “nessun problema con il vicinato”, che aveva portato a un cessate-il-fuoco con i curdi del PKK, alla firma di un protocollo di normalizzazione dei rapporti con Yerevan, a un allentamento delle tensioni nell’Egeo, a un’intensificazione dei commerci con i paesi arabi e al proseguimento del negoziato di adesione all’Unione Europea, in un’ottica di ulteriore avvicinamento all’Occidente.

Promesse e neo ottomanesimo

Invece, nonostante questo promettente avvio, è successivamente emersa una visione neo-ottomana di un recupero di influenza regionale, che ha fatto comprendere che Erdoğan avrebbe interpretato il ruolo di Presidente della Turchia in maniera più spregiudicata dei suoi predecessori, portando Ankara all’attuale interventismo, che ha fatto prima rimandare e poi incagliare il negoziato sull’adesione all’Unione Europea, in quanto il paese è ormai divenuto culturalmente difforme dalla visione europea sui diritti civili.

Una visione, quella di Erdoğan, che tende a un recupero dell’antico ruolo turco nel mondo musulmano, ma anche a un relativo decadimento dei rapporti con l’Europa (diventati critici anche per effetto della questione dei migranti siriani) e con gli Stati Uniti, a favore di una visione multi-direzionale che include il pur ambiguo rapporto con ex-imperi antagonisti come la Russia (commesse militari sui missili S-400 e nucleari per la centrale di Mersin) e lo sviluppo di relazioni con l’emergente potenza militare cinese, in ragione della diversificazione dei rapporti economici, energetici e di sicurezza.

Il fallito poco credile colpo di stato

Successivamente al fallito colpo di Stato del 15 luglio 2016 il Presidente Recep Tayyip Erdoğan, parallelamente alle azioni repressive in Patria, ha poi deciso di accentuare il suo attivismo internazionale, specialmente nell’area mediterraneo-mediorientale: dalla posizione assunta nella crisi siriana, che ha portato Ankara a effettuare operazioni militari oltre confine nel 2019, agli interventi muscolari del 2018 per impedire le trivellazioni, regolarmente autorizzate da Nicosia, da parte della nave Saipem 12000, al recente attivo appoggio militare e navale in Libia a supporto di al-Serraji, fino al concorso nella mediazione, come detto, per la liberazione dell’ostaggio italiano.

Il protagonismo crescente della Turchia in Libia, in particolare, ha portato il 27 novembre 2019 alla firma di due accordi bilaterali, uno di cooperazione militare e uno riguardante la delimitazione dei confini delle rispettive Zone Economiche Esclusive (ZEE) marittime, a confermare il disegno di espansione turca nel sud-est del Mediterraneo. L’accordo sulle ZEE, in particolare, ha enormi implicazioni economiche, essendo il Mar del Levante denso di giganteschi giacimenti di gas (tra gli altri, Leviathan di 450 miliardi di m3, Zohr di 850 miliardi di m3, Noor stimato il triplo di Zohr) e l’area rivendicata da Ankara sarebbe un passaggio obbligato per eventuali futuri gasdotti diretti verso l’Italia o l’Europa.

Fronte interno, sicurezza = repressione

In tale quadro, l’esigenza di Erdoğan di rendere sicuro il fronte interno, per poter dedicare tutte le energie agli impegni esteri, lo ha portato nel giugno 2018 a indire nuove elezioni, con 18 mesi di anticipo sul previsto. Elezioni che hanno fatto sollevare alcune critiche, ancorché piuttosto tenui, da parte di UE e OSCE, che si sono limitate a rilevare come la campagna elettorale si sia svolta in condizioni abbastanza lontane dagli standard democratici.

Tuttavia, il fatto che la Turchia si trova immersa in un’area caratterizzata da estrema instabilità sta suggerendo alle diplomazie occidentali di evitare di antagonizzare un paese ancora cruciale per la NATO o di eroderne ulteriormente le relazioni con l’Unione Europea, rischiando una lacerazione difficilmente risanabile nei rapporti economici e politici, con l’auspicio che ciò porti Erdoğan a una seppur parziale rivisitazione dei propri obiettivi di politica estera e a una maggiore moderazione sulle questioni interne.

Ma la Turchia ‘utile’

In definitiva, anche se al momento non sembrano messe in dubbio la lealtà verso l’Alleanza Atlantica e le relazioni con l’Occidente, la Turchia sembra avere ormai imboccato una strada che difficilmente la porterà nuovamente a desiderare di far parte dell’Unione Europea (che ha peraltro palesato tutti i suoi limiti e ambiguità con l’emergenza Covid-19). Una strada che, nelle intenzioni di Erdoğan, dovrebbe permettere ad Ankara di proseguire il percorso di allargamento dei propri interessi economici, politici e militari nel Mediterraneo e di riavvicinamento al Medio Oriente, con lo scopo di tornare a essere un importante attore anche in quelle aree dalle quali era stata allontanata dopo la caduta dell’impero ottomano, all’indomani della fine della Prima Guerra Mondiale.

E la mediazione effettuata nel caso della liberazione della ragazza italiana è solo, per il momento, l’ultimo frammento del puzzle geopolitico e militare che Erdoğan sta giocando in quella parte di mondo, a noi così vicina.

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