
E’ di tutta evidenza che la vicenda ha scatenato un “tsunami” mediatico e pseudo-analitico che ha spesso toccato livelli di pessimo gusto investendo aspetti della sfera personale della ragazza (la sua eventuale conversione all’Islam, il modo di vestire, il suo matrimonio, la sua eventuale gravidanza), o discettando su elementi, quali l’eventuale riscatto, su cui si hanno ancora pochi e precari elementi. A fronte di tale tsunami forse non è inutile cercare di ampliare la riflessioni sugli elementi di maggior valenza epistemologica e quindi sul “motore primo” che ha originato l’intera vicenda:
una rilevante crescita ed espansione del Jihadismo in Africa.
Su tale aspetto si sono avuti elogi e bocciature ma per lo più con finalità politiche. Sarebbe invece utile valutare le valenze della resa mediatica in ordine alle strategie di comunicazione del Jihadismo che, sappiamo, ha da anni teorizzato evolute strategie di comunicazione con elevata consapevolezza della loro importanza ai fini di una Information Warfare che il Jihadismo ormai affianca da tempo alla lotta tecnico- militare e terroristica. Ricordiamo che i principali testi del pensiero jihadista (Abu Mus’ab al-Suri, l’architetto del “Jihad Globale”, nel Global Islamic Resistance Call e Abu Bakr Naji nel Management of Savagery) dedicano ampio spazio all’importanza delle campagne mediatiche e di comunicazione nelle strategie jihadiste. Alcuni analisti associano in particolare le teorie di al-Suri al 4th Generation Warfare con ricorso sempre maggiore a tecniche di pressione psicologica e di comunicazione per bypassare il differenziale di military capacities per conseguire obiettivi politico-strategico (concetto di guerra asimmetrica).
Il Jihadismo tende inoltre sempre di più a proporsi con identità che vanno molto al di là di “semplice” soggetto terroristico per toccare profili quali: Proto-Stato, Non-State -Actor, World Altering Revolution, Polo di riferimento identitario e mobilitante per l’Islam radicale. Nella gestione mediatica di ogni evento legato al Jihadismo va quindi considerato il rischio, ancorché involontario (ma l’ignoranza non è mai innocua), di supportare o aumentare la veicolazione di tali profili e la credibilità del Jihadismo.
In altri termini la gestione mediatica di tali eventi, specie se seguenti una presumibile trattativa, dovrebbe ispirarsi a criteri di basso profilo e sobrietà.
A tale tema potrebbe ricollegarsi anche una riflessione sull’opportunità e modalità di ricercare, intraprendere e condurre trattative con organizzazioni terroristiche o criminali (in molte aree tale distinzione è ben difficilmente praticabile) e quindi rendere pubbliche tali trattative specie se accompagnate da pagamenti di riscatto.
Su quest’ultimo tema non appare inutile un ripescaggio degli scritti pubblicati da Cronin e Dershowitz qualche anno fa sulle “strategic negotiations” con organizzazioni terroristiche e sui conseguenti rischi di aumentarne la legittimazione e/o la visibilità. Poiché non viviamo su Marte è da dire che in linea teorica tali rischi, di fronte a determinate situazioni e per salvaguardare altri prioritari interessi, potrebbero anche essere accettati, ma allora a maggior ragione è consigliabile acquisire serie analisi teoriche in materia. In questi casi la “pratica” deve essere nettamente subordinata alla “grammatica”.
Quando si parla di Jihadismo si pensa in via prioritaria al Medio Oriente e solo in via secondaria all’Africa, forse è il caso di rivedere radicalmente tale approccio. Sulla assoluta rilevanza del Jihadismo in Africa, specie negli ultimi anni, esistono ormai varie e consolidate conferme da autorevoli fonti. In realtà si può affermare che per certi aspetti il Jihadismo africano è nato già agli inizi del XIX secolo, e quindi ben prima di quello mediorientale, con il poco noto Califfato Islamico di Sokoto (Nigeria), che può definirsi il primo vero esempio di Stato Islamico e per certi aspetti progenitore dell’Islamic State (ex ISIS). Esso ha avuto ed ha ancora un forte potere evocativo ed identitario nell’immaginario collettivo sub-sahariano ed ispira ancora gran parte dei movimenti jihadisti africani specie in chiave antioccidentale quali Boko Haram.
Le più recenti ed autorevoli conferme della crescente rilevanza del Jihadismo in Africa le troviamo poi nell’ ultimo Rapporto dei Servizi presentato al Parlamento nel febbraio scorso ( 2020) in cui con riferimento a tutta l’Africa sub-sahariana si evidenzia una sinergia fra ideologia jihadista, istanze socio-economiche ed etnico-separatiste e si individua il Sahel “quale potenziale epicentro del jihad globale”. Anche i documenti ufficiali dell’ONU confermano tale preoccupante evoluzione.
Da altre fonti si evince poi che il numero di attacchi terroristici in Africa , per la stragrande maggioranza riferibile a gruppi jihadisti, sia aumentato di oltre cinquanta volte dal periodo 1979-2000 al periodo 2013-2019 e la preoccupante espansione delle presenze jihadiste anche al di sotto dell’equatore.
La geometria, la onomastica e le affiliazioni dei gruppi jihadisti in Africa sono molto variegate e complesse, troviamo: Boko Haram , Islamic State West Africa Province ( ISWAP), JNIM ( che dal 2017 riunisce vari cartelli fra cui Al-Murabituun ed Ansar al-Diin), Islamic State in Greater Sahara ( ISGS), Islamic State Central Africa Province ( ISCAP), Ash-Shabaab. Ma esistono vari gruppi minori e almeno un centinaio di milizie cosiddette di autodifesa. L’ influenza di al-Qa’ida e dell’Islamic state ex ISIS è molto diffusa specie nelle province (Wilayat) affiliate all’IS ex ISIS.
La conferma più analitica della rilevanza jihadista in Africa viene dal Global Terrorism Index ( GTI – rapporto annuale sui livelli di terrorismo nei vari paesi, elaborato con rigorosi criteri analitici), nell’ultimo Report pubblicato nel 2019 possiamo dedurre i seguenti elementi:
Considerando poi anche le presenze jihadiste in tutto il Nord Africa ( in particolare in Libia ma anche in Tunisia, Algeria ed Egitto) non è azzardato affermare che al di là del Mediterraneo, cioè di fronte casa nostra, oggi troviamo la più vasta area di contiguità jihadista al mondo in un continuum territoriale che si estende dalla Libia all’Africa Occidentale alla Somalia e verso sud attraversa l’equatore fino al Congo ed al Mozambico. Un eventuale , ma tutt’altro che improbabile, “corto circuito” fra il fenomeno jihadista e le crisi ambientali, la siccità, il fenomeno migratorio, gli impatti ancora non stimabili del coronavirus e le consolidate crisi etnico-tribali da sempre presenti nell’area potrebbe avere esiti devastanti per l’Africa con inevitabili contraccolpi per l’Europa.
Tali organizzazioni svolgono un ruolo altamente meritorio, in alcune aree costituiscono l’unico concreto riferimento per l’assistenza a popolazioni già sottoposte ad ogni tipo di vessazioni, ma forse è il caso di porsi il problema di come si possano al meglio bilanciare gli obiettivi umanitari con la sicurezza degli operatori, in maggioranza giovani, che generosamente dedicano periodi della propria vita a tali attività. Va ricordato che il Kenia già nel 2018 aveva un GTI di ben 6,7 per di più con trend crescente e la Somalia di 8,02 (peraltro i continui sconfinamenti di ash-Shabaab fra Kenia e Somalia sono noti da anni).
In che misura è valido il monito di crescente irrilevanza dell’Occidente nello scenario mondiale così come emerso dal recente Munich Security Forum ? Ci dobbiamo rassegnare ad un continuum semi-planetario di instabilità e crisi dall’Africa Occidentale al Mozambico all’Asia Centrale fino alle Filippine in cui il Jihadismo continuerà a trovare un humus sempre più favorevole ?
La vicenda di Silvia, per tornare al titolo, è solo uno degli ultimi indicatori in ordine di tempo di tali drammatici temi che abbiamo sul tappeto e che forse non sempre vogliamo o sappiamo “vedere”.