
Da anni l’Italia paga, se non sempre quasi sempre, i sequestratori e si tratta di somme rilevanti. Altri paesi forse non pagano, o almeno così dichiarano ufficialmente, ma ipocrisia e pseudo segreti in questa materia sono all’ordine del giorno. Noi tendenzialmente paghiamo per tutti gli ostaggi, siano essi in missione ufficiale o all’estero per lavoro (ad es. i giornalisti o i tecnici di società che hanno lavori e cantieri), o ancora quali volontari di Organizzazioni umanitarie note e di altre meno note (e certamente meno attente e meno sicure).
Paghiamo anche se poi facciamo finta di non averlo fatto. Si tratta di una scelta, lasciata (come è giusto) nelle mani del Governo ed alla esecuzione dei nostri Servizi e che non può e non deve essere messa in piazza durante le trattative: ci mancherebbe altro. Ne va della vita dell’ostaggio ma anche di quelle di chi è sul campo per tessere accordi con dei notori tagliagole. Ma forse, una discussione generale, non sui singoli casi ma sui criteri che vengono adottati potrebbe dare una qualche indicazione alla pubblica opinione, oggi particolarmente disorientata e divisa tra santificatori a prescindere e persone che vorrebbero impiccare … l’ostaggio.
Il punto è un altro: se in Italia qualcuno viene sequestrato a scopo di estorsione, la legge (art. 1 del decreto legge 15 gennaio 1991, n. 8, Nuove norme in materia di sequestri di persona a scopo di estorsione) i beni della famiglia vengono sequestrati per impedire il pagamento del riscatto. Tale disposizione venne introdotta, con un certo successo, per porre un freno ad un fenomeno che, soprattutto tra Sardegna, Calabria e Toscana, stava assumendo dimensioni da paese dell’America Latina. Essa però ebbe un prezzo umano non da poco, essendo costata la vita a non pochi ostaggi ed avendo causato comunque dolore ed apprensione in molte famiglie.
La domanda però sorge spontanea: in Italia non si paga e all’estero sì ? La famiglia no e lo Stato (secondo criteri necessariamente assai discrezionali) sì ? Forse sul punto occorrerebbe fare un po’ di chiarezza.
Nulla so della Ong che ha spedito Silvia Romano in Kenya: magari sono i più strutturati al mondo. Però so per certo che organizzazioni come MSF, Sant’Egidio e simili non mandano mai sul campo persone senza una adeguata organizzazione (Silvia era sola, mi pare di aver capito) e senza preventivo, anche lungo, tirocinio. Non è che persone giovani e volonterose ma prive dei necessari rudimenti di sicurezza vengono mandate senza troppo pensarci in zone comunque a rischio ? E non è che le tante Silvie desiderose di fare del bene si rivolgono proprio a dette organizzazioni light perché così vanno subito nella agognata Africa senza passare per noiosi tirocini ?