
Già dal gennaio di quell’anno era ricoverato nella migliore clinica di Lubiana, ricostruisce Gianluca Modolo su Repubblica. Un’infiammazione alla gamba sinistra, poi amputata per evitare la cancrena. Le successive complicazioni e le settimane di coma indotto portarono all’arresto cardiaco e alla morte del creatore e padrone della Jugoslavia.
A 40 anni di distanza da quel pomeriggio, nonostante non fosse in programma nessuna cerimonia ufficiale, in molti – sfidando le restrizioni dovute al coronavirus – dalla Croazia alla Serbia fino alla Bosnia si sono radunati per celebrare l’uomo che per 35 anni ha guidato la Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia.
Nel 2016 l’istituto Gallup segnalava che l’81% dei serbi e il 77% dei bosniaci considerava un “danno” la disgregazione della Jugoslavia.
«Poco prima di morire, il vecchio compagno Svetozar Vukmanovic in visita nella tenuta del Maresciallo sull’isola di Brioni gli chiese: “Che cosa sta succedendo alla Jugoslavia?”. Tito rispose: “La Jugoslavia non esiste più”», scrive Modolo. Dieci anni dopo la sua morte di Tito iniziò il collasso della federazione. Riaccesi i nazionalismi, le guerre degli anni ’90 fecero oltre 130mila morti, trascinando la Jugoslavia in una crisi economica e politica da cui non sarebbe sopravvissuta. Ora, quelle sei ex repubbliche Jugoslave hanno prodotto sette piccoli Stati indipendenti, alle prese, ognuno, con problemi politico economici spesso simili tra loro, ma a versioni nazionali contrapposte.